Vari, La Stampa 14-15/9/2010, 15 settembre 2010
ARTICOLI USCITI SULLA STAMPA IN OCCASIONE DELL’INCIDENTE NEL CANALE DI SICILIA: I LIBICI CHE SPARANO CONTRO UN PESCHERECCIO ITALIANO
14 settembre 2010
Cronaca
GUIDO RUOTOLO
ROMA
La caccia è durata per diverse ore. Loro, le prede, una decina di pescatori di Mazara del Vallo, erano terrorizzati: «E’ stato un inferno, i proiettili rimbalzavano dal ponte fino alla sala macchina». I sei uomini della Guardia di finanza, che erano a bordo della motovedetta (italiana) ceduta ai libici, con il ruolo di osservatori e consulenti tecnici, assistevano impotenti a quelle raffiche di mitragliatrice che invece di colpire a vuoto - in aria per intenderci, secondo l’ordine impartito dal comandante della Guardia costiera libica - viaggiavano ad altezza d’uomo.
Si è davvero sfiorata la strage. La procura di Agrigento ha deciso di aprire una inchiesta.
Le scuse ufficiali sono arrivate a tarda sera, dopo 24 ore dall’inizio del «giallo» che poi giallo non è mai stato, perché i sopravvissuti sono riusciti a raggiungere ieri mattina Lampedusa. Solo dopo aver attraccato, il comandante Gaspare Marrone e il suo equipaggio hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, mostrare gli effetti collaterali - i fori dei proiettili nella lamiera del peschereccio - dell’intimazione ad abbandonare quello specchio di mare che Tripoli ritiene essere sotto la sua giurisdizione.
E hanno raccontato la loro Odissea.
La caccia era partita alle sei del pomeriggio di domenica, a una trentina di miglia da Zwarah, il porto maledetto da dove salpavano decine di migliaia di clandestini diretti in Italia. Ricorda il comandante del peschereccio «Ariete», premiato nel 2008 con il suo equipaggio dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, per via dei ripetuti salvataggi in mare di imbarcazioni cariche di extracomunitari. Diceva allora il comandante Marrone: «La legge del mare ci impone di aiutare chi è in difficoltà, anche a rischio della nostra vita».
Racconta oggi Marrone: «Ci hanno intimato di fermare le macchine, ma io ho detto ai miei uomini di andare avanti. Sapendo quello che ci aspettava - ci avrebbero arrestati a lungo e avrebbero sequestrato tutto - ho preferito proseguire spingendo i motori al massimo».
Prende fiato il comandante: «Dopo pochi minuti sono arrivate le raffiche di mitra che hanno colpito ovunque. Hanno continuato a sparare a intervalli di circa un quarto d’ora, venti minuti. Ci siamo distesi tutti a terra pregando che nessuno di noi venisse colpito. Ci hanno inseguito fin quasi dentro le nostre acque territoriali. Solo all’alba, quando eravamo in vista di Lampedusa, ci siamo sentiti in salvo».
Erano dieci gli italiani che potevano essere centrati dal «fuoco amico». Alessandro Novara, uno dei pescatori dell’equipaggio dell’«Ariete»: «Siamo vivi per miracolo, hanno sparato all’impazzata sfiorandoci; solo per un caso non hanno provocato l’esplosione di alcune bombole di gas».
La fiancata sinistra e la cabina di pilotaggio presentano diversi fori di proiettili. Ed è stato solo un colpo di fortuna se alla fine non si lamentano feriti o, peggio, morti. L’«Ariete» è poi ripartita per la sua battuta di pesca. Ma quanto prima gli uomini del Ris dei carabinieri, su delega della procura di Agrigento, dovranno fare degli accertamenti tecnici sui fori dei proiettili conficcati nella lamiera del peschereccio, per verificare se appunto la mitragliatrice libica ha sparato ad altezza d’uomo.
Solo alle otto di sera, il Comando generale della Guardia di finanza, imbarazzato, ha confermato la presenza di militari italiani a bordo della motovedetta libica. Eppure sin dalla mattina il racconto del comandante dell’«Ariete» non lasciava dubbi: «Dopo essere stati intercettati, qualcuno che parlava l’italiano meglio di me, e non aveva nessuna inflessione straniera, ci ha urlato: “Fermatevi, o questi vi sparano”. Che motivo aveva di dire “questi”? Avrebbe dovuto dire “fermatevi o vi spariamo”». E già, davvero gli italiani sono stati semplici osservatori? O hanno fatto soltanto i traduttori? Ma sono stati complici (involontari) dei libici?
Che cosa dice il ministero dell’Interno
FRANCESCO GRIGNETTI
Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ora vuole un’inchiesta sulla storia della motovedetta libica che ha sparato contro un nostro peschereccio. E’ furibondo, il ministro, e c’è da capirlo: Maroni è tra quelli che ha creduto di più nell’accordo di cooperazione italo-libico, ha difeso il trattato con le unghie e con i denti, ha polemizzato, ha dimostrato con i numeri che grazie a quell’accordo si è pressoché chiuso un rubinetto che inondava di immigrati clandestini l’Italia, e ora scopre con disappunto che i libici stanno facendo tutt’altro e per di più sotto gli occhi degli «osservatori» della Guardia di Finanza. E perciò, come da nota ufficiosa del Viminale: «Il ministro ha immediatamente disposto l’apertura di un’inchiesta per accertare se nella vicenda del motopeschereccio colpito da colpi di arma da fuoco sparati da una motovedetta libica emerga un’utilizzazione dei mezzi donati dall’Italia per potenziare il contrasto all’immigrazione clandestina non coerente con le previsioni del Trattato firmato nel 2007 dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato». Era in effetti un accordo inseguito da tempo, quello per il contrasto all’immigrazione clandestina. E che siano Pisanu o Amato o Maroni i ministri dell’Interno, D’Alema o Prodi o Berlusconi i premier, con Gheddafi andiamo sempre molto d’accordo.
Già oggi si terrà una riunione per verificare «il funzionamento delle regole di ingaggio». L’ha annunciato dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, confermando che a bordo della motovedetta libica vi era più di un italiano: un sottufficiale della Finanza in veste di osservatore (e dovrebbe essere stato lui ad aver gridato al megafono ai pescatori che si allontanavano: «Fermatevi o questi vi sparano») più un altro che supervisionava i motori. «Quando i pescherecci italiani pescano in acque vietate - ha spiegato Frattini al Tg1 - ovviamente vengono fermati. Ma sparare è una cosa che non possiamo immaginare né contemplare».
Che l’uso di almeno una delle sei motovedette donate dall’Italia al leader libico non sia stato «coerente» con il trattato del 2007 è facile capirlo. Quelle motovedette dovevano essere disarmate e ora invece imbarcano una mitragliatrice pesante. Dovevano servire a fermare gli scafisti che traghettano immigrati clandestini verso l’Europa e ora vengono utilizzate per affermare i diritti di pesca della Libia. Incredibile, poi, è che ciò avvenga sotto gli occhi del personale italiano.
Detto per inciso, la presenza dei finanzieri in Libia costa un occhio della testa. Nel decreto legge numero 1 del 1 gennaio 2010, si legge che sono stati stanziati 8 milioni di euro e 220mila euro per sei mesi di presenza italiana in Libia. Personale della Guardia di Finanza che si trova laggiù appunto a «garantire la manutenzione ordinaria e l’efficienza delle unità navali cedute dal governo italiano al governo libico, in esecuzione degli accordi di cooperazione sottoscritti tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani». Sedici milioni di euro all’anno: ecco quanto costa la missione della Guardia di Finanza per garantire a Gheddafi l’efficienza delle motovedette.
Che cosa dice l’opposizione
ANTONELLA RAMPINO
ROMA
La Farnesina ha seguito per tutta la giornata l’evolversi dell’incredibile vicenda per la quale da una delle sei motovedette italiane recentemente cedute alla Libia per il pattugliamento anti-immigrati si è sparato contro un peschereccio italiano, e a bordo c’era addirittura un militare della guardia di Finanza, «più altro personale tecnico italiano», come preciserà poi al Tg1 e al Tg5 lo stesso Frattini. Più tardi si scoprirà che gli uomini della Gdf erano in tutto sei.
Il ministro degli Esteri ha offerto la ricostruzione ufficiale del governo in due dichiarazioni ai tg, al termine di una giornata in cui non solo dall’Idv ma anche dal Pd e dall’Udc erano giunte richieste di riferire in Aula, cosa che al momento non è previsto che accada, ed è il presidente della Esteri al Senato Lamberto Dini ad escludere che questo possa avvenire in commissione. Frattini ha spiegato che la motovedetta stava effettuando un pattugliamento anti-immigrati, e che il comandante «ha ordinato di sparare in aria, ma poi purtroppo i colpi hanno raggiunto il peschereccio italiano», annunciando che il ministro dell’Interno Roberto Maroni avvierà un’inchiesta sui fatti, e che i libici si sono già scusati, attraverso l’ambasciatore di Tripoli a Roma, anche con la Guardia di Finanza. Il ministro degli Esteri ha poi aggiunto che si tratta di «rivedere le regole di ingaggio», e cioè di precisare a quali norme ci si deve attenere nel pattugliamento misto. Il militare italiano era a bordo secondo quanto «previsto dall’accordo firmato nel 2007 dal governo Prodi e poi integrato da Maroni nel 2009». Accordi che «sin dal primo giorno stabiliscono che il comando è ovviamente degli ufficiali libici». Mentre «i nostri uomini non hanno partecipato minimamente all’operazione».
La ricostruzione non convince, a dir poco, la vicepresidente del Senato Emma Bonino, che ai tempi in cui era nella Commissione europea (precedente governo Berlusconi) aveva le deleghe alla pesca e conosce bene l’annoso e irrisolto problema delle acque territoriali, poiché «nonostante nel Mediterraneo sia difficilmente applicabile il limite delle 12 miglia, la Libia si arroga il diritto di fissarle unilateralmente». Ovviamente «è inaccettabile che si spari» dice Bonino. Ma se questo lo riconosce anche Frattini, la vicepresidente del Senato aggiunge che «radar e satelliti dovrebbero confermare che il motopeschereccio non stava pescando». Il punto è «che si tratta di un mezzo Ariete, e cioè di un tipo di barca con la quale comunemente si salvano le persone in mare», come dire che i libici hanno sparato perché temevano che a bordo ci fossero migranti, e dunque in ottemperanza al «contrasto» all’immigrazione previsto dal trattato italo-libico del 2009. «Quello che firmò il governo Prodi nel 2007 era ben diverso dalla speciale partnership, con tanto di spiragli anti-Nato e senza pretendere dai libici la fissazione di un limite nelle acque territoriali, che Berlusconi ha firmato con un interlocutore inaffidabile qual è Gheddafi». Frattini ha comunque assicurato che si rivedrà quella parte del trattato di Bengasi. Ma intanto le opposizioni insistono affinché vada a riferire in Parlamento. «E’ una vicenda gravissima» dice il presidente dell’Udc Buttiglione, «ci aspettiamo una risposta molto forte del governo, specie dopo tutte le umiliazioni che l’Italia ha subito da Gheddafi negli ultimi mesi»
Che cosa dice l’ambasciatore
ROMA
Siamo profondamente dispiaciuti per quello che è accaduto. Abbiamo deciso di istituire una commissione d’inchiesta alla quale potranno partecipare anche rappresentanti italiani». Hafed Gaddur è l’ambasciatore libico a Roma. «I rapporti di amicizia tra i nostri due popoli - insiste l’ambasciatore - sono più forti di qualsiasi incidente, e neppure le polemiche distruttive che ci sono in Italia riusciranno a scalfire questo nostro profondo rapporto di amicizia».
Ambasciatore Gaddur, una motovedetta in pattugliamento per il contrasto all’immigrazione clandestina, con nostri ufficiali di collegamento, ha aperto il fuoco contro un peschereccio italiano. La tragedia si è evitata per un soffio...
«Ripeto quello che è successo non dovrà mai più ripetersi».
Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha sollevato il problema che le motovedette italiane, secondo l’accordo siglato dall’allora ministro Giuliano Amato, dovevano essere utilizzate solo per il contrasto dell’immigrazione clandestina e non invece...
«Mi auguro che molto si raggiunga con l’intesa sulla pesca tra i nostri due governi. L’accordo quadro di Bengasi lo prevede, adesso dobbiamo accelerare i tempi e trovare una sintesi che soddisfi sia noi che voi. Sono sicuro che con l’accordo sulla pesca incidenti come quelli dell’altra sera non si ripeteranno più».
Ambasciatore Gaddur, l’intesa sulla lotta alle organizzazioni criminali e sul contrasto all’immigrazione clandestina sta dando ottimi risultati. Nel senso che a Lampedusa non arriva più nessuno, o quasi.
«Gli impegni assunti li manteniamo. Voglio ricordare che il Trattato di amicizia tra i due popoli è stato ratificato a maggioranza assoluta dal Parlamento italiano, e dai nostri congressi popolari di base. E’ questo quello che conta per noi. Il rapporto tra Italia e Libia è ormai indissolubile. La Libia è sincera nel suo rapporto con l’Italia».
Ambasciatore, in Italia è polemica politica sui rapporti tra Gheddafi e il presidente del Consiglio Berlusconi. Sia per quanto riguarda il non rispetto dei diritti umani nel vostro Paese che per gli affari libici in Italia...
«Queste polemiche sono fuori luogo. Prendiamo le critiche sugli investimenti libici in Italia. Intanto il vostro Paese è aperto agli investimenti stranieri e voi stessi investite anche all’estero. Per quanto ci riguarda, noi abbiamo sempre rispettato le regole internazionali».
In queste settimane sono state molto forti i dubbi sul vostro ingresso in Unicredit.
«Quando Unicredit attraversava momenti difficili, abbiamo avuto inviti pressanti a intervenire, sia da destra che da sinistra».
Opinione della leghista Angela Maraventano
Senatrice Angela Maraventano, da leghista e da ex vicesindaco di Lampedusa, sarà la meno stupita di quello che è successo...
«E’ sempre stato così. Ho avuto un parente che è stato sequestrato dai libici per uno sconfinamento di acque».
Sì però ora i rapporti con la Libia sono molto diversi. Berlusconi dice che il colonnello Gheddafi è uno tra i migliori alleati dell’Italia...
«Io non ho mai difeso Gheddafi. Non lo faccio nemmeno in questa situazione. Ma non credo che sia una direttiva del governo libico quello che è successo. Penso più all’iniziativa personale di un militare, del comandante della nave».
Secondo lei questo comporterà una revisione dei rapporti tra Italia e Libia?
«Non credo. Gli accordi ci sono. Credo che alla base di tutto ci debba essere comunque il rispetto».
Il rispetto?
«I nostri pescherecci non possono entrare in acque straniere. Lo so che la Libia è a soli 60 chilometri da Lampedusa, ma gli accordi internazionali vanno rispettati. E anche i libici devono rispettarci. Non era mai successo che aprissero il fuoco su nostre navi».
A bordo c’era anche un militare italiano. Sa, per i pattugliamenti congiunti...
«Su questo preferisco non esprimermi. Non ho notizie certe. Io comunque mi sento già di chiedere al nostro ministro degli Esteri e a quello dell’Interno di adottare pattugliamenti ancora più rigidi nei confronti dei natanti che arrivano dalla Libia».
15 settembre 2010
Cronaca della giornata
GUIDO RUOTOLO
Adesso la commissione d’inchiesta del Viminale dovrà assolvere al compito di far sbollire gli animi, di far calare la tensione. Di chiudere quello che il ministro degli Esteri Frattini ha definito un «grave incidente». Certo, poteva scapparci il morto ma visto che il morto non c’è stato, la parola d’ordine è quella di archiviare l’accaduto.
Addirittura, al Viminale ricordano che «i nostri pescherecci spesso sono bersagli di tiro a segno delle forze di polizia in Croazia come in Senegal». Questo per dire che non c’è solo un «caso» Libia, ma che di fronte a «contestate» presenze di pescatori «abusivi» (si dovrebbe dire di frode) in acque internazionali, può succedere quello che nessuno si augura.
Lungi dal rimuovere il «grave incidente», il Viminale sta ricostruendo l’accaduto. Un primo rapporto dei sei militari della Finanza presenti sulla motovedetta ceduta ai libici, è arrivato sul tavolo del ministro dell’Interno, Roberto Maroni. E in giornata si è tenuta una prima riunione, dopo aver convocato il responsabile del contingente della Finanza in Libia e il vicecomandante (il comandante è libico) del Centro operativo interforze. La commissione d’inchiesta non ha concluso i lavori ma ha già le idee chiare su ciò che è successo domenica sera a trenta miglia da Zwarah.
In sostanza, i sei finanzieri hanno raccontato che dopo aver pianificato la «missione» di contrasto alla immigrazione clandestina, «sono usciti regolarmente». Quando hanno avvistato il peschereccio, i militari libici avrebbero seguito le regole di ingaggio stabilite dai trattati: «Hanno prima attivato i segnali acustici, poi quelli visivi, passando così agli spari di intimazione in aria».
Attenzione, i nostri sei finanzieri ammettono che nella fase critica dell’«incidente» si trovavano «sottocoperta». Anche se un finanziere via radio ha comunicato al comandante del peschereccio “Ariete” che i libici avrebbero sparato se non si fossero fermati.
Con i finanzieri in un ruolo passivo, di meri osservatori di quanto stava accadendo, lo scontro tra i libici e i pescatori italiani ha vissuto momenti drammatici. Perché le raffiche di mitra hanno colpito il peschereccio mettendo a rischio la vita degli italiani.
Va precisato che per quanto riguarda le nostre sei Fiamme gialle, si tratta di personale tecnico: motoristi, elettrauti, meccanici. L’accordo italo-libico stabilisce che il personale italiano deve indossare «abiti da lavoro scevri da distintivi», trattandosi di personale di osservazione che presta attività di assistenza e consulenza tecnica a bordo.
Dunque, mentre i nostri dieci marinai rischiavano la vita, i finanzieri erano sottocoperta. La procura di Agrigento procede per tentato omicidio e per la violazione del codice della navigazione, ravvisando una ipotesi di tentativo di speronamento. Secondo l’accordo italo-libico, i sei militari italiani non possono essere chiamati a rispondere per gli eventuali reati commessi dai libici.
Ambienti diplomatici libici continuano a sottolineare che «incidenti come quelli di domenica non devono ripetersi mai più». E intanto Tripoli ha comunicato a Roma che dall’Egitto è salpata una nave carica di clandestini. E che da Malta due imbarcazioni sono salpate per il trasbordo dei clandestini da sbarcare in Italia. Tripoli ha fornito le coordinate per intervenire. La lotta all’immigrazione clandestina continua, nonostante tutto.
Commento all’episodio della Cei
GIACOMO GALEAZZI
CITTA’DEL VATICANO
Non si può «tacere di fronte a esseri umani innocenti trasformati in bersagli per le mitragliatrici». Le scuse ufficiali «non resuscitano i morti, qui si fa caccia all’uomo e il governo è inerte mentre Gheddafi allarga i limiti delle acque territoriali», denuncia a Radio Vaticana il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, presidente del Consiglio Cei per gli Affari giuridici che, «sconcertato», invoca un «negoziato immediato tra Roma e Tripoli». Nuovi strali dalla Chiesa contro la «linea dura» anti-clandestini della Libia: «Basta pallottole facili, la guerra agli immigrati complica tutto e provoca tragedie». Va «ancora chiarito» il ruolo dei militari italiani della Guardia di Finanza a bordo della motovedetta libica che lunedì ha sparato al «nostro motopeschereccio “Ariete” che non aveva compiuto nessun atto di ostilità». L’equipaggio del motopesca «ha cercato solo di raggiungere una sponda siciliana, ben sapendo che altrimenti lo avrebbe atteso il sequestro e l’arresto», puntualizza Mogavero.
«Il Codice della navigazione fissa limiti ben precisi, che la Libia unilateralmente ha ampliato e la tutela dei nostri uomini spetta al governo, che invece di fronte ad una situazione grave ed allarmante resta inerte». Anzi, gli ultimi fatti «indicano chiaramente» come le autorità libiche e quelle italiane non riescano a dialogare. «Siamo per la linea costruttiva della trattativa diplomatica», perciò «prima di dover raccogliere di nuovo amaramente il cadavere di qualche pescatore o marittimo, siciliano o immigrato, imbarcato su mezzi mazaresi, si dialoghi per risolvere la questione internazionale. E’ necessario arrivare a vittime innocenti per capire che le cose così non cambieranno?». Bisogna «assumere un’iniziativa politica, intraprendere un negoziato lungo, complesso, dall’esito non scontato. Ma è chiaro che in questo modo non si può andare avanti: non si può sparare contro un essere umano, sia esso un italiano o un clandestino. In entrambi i casi è un atto contro cui è necessario indignarsi». Sono «episodi che si ripetono e la preoccupazione è grande, perché si vede soprattutto l’assenza di un’azione politica a livello nazionale ed internazionale». Il clima che «si respira, l’esasperata caccia all’immigrato, per cui ogni imbarcazione è un potenziale mezzo nemico che tenta di portare in Occidente persone “pericolosissime” da rinviare subito al mittente non giova a rasserenare i rapporti, e a trovare la soluzione più umana possibile».
Immediate le reazioni politiche al «J’accuse» di Mogavero. Per il Pd «il presule ha ragione: il governo è poco influente nell’Ue e non garantisce sovranità nel Mediterraneo». Secondo l’Idv è «indegno difendere Gheddafi». Il ministro degli Esteri Franco Frattini non ha «motivo di replicare» alla Cei riguardo «un incidente grave che però nulla cambia nei rapporti con la Libia: quello spazio, ad avviso dei libici, è loro mare territoriale in cui pacificamente pescano anche gli italiani. In molti casi non accade nulla, in altri ci sono incidenti e sequestri. Da un anno negoziamo con Tripoli un accordo di pesca, con la Tunisia ne sono serviti sette».
Il vicepresidente dei deputati del Pdl, Osvaldo Napoli sostiene che «Mogavero è soprattutto il vescovo di Mazara» e «si fa portavoce delle esigenze e dei problemi che assillano i pescatori della zona che si trovano ogni giorno a contatto con la mancata definizione di un accordo per la pesca fra Italia e Libia», dunque la sua denuncia «non va interpretata come una protesta dei vescovi contro il governo» e «la Cei ha tutt’altra sensibilità sull’episodio specifico». Napoli paragona il presule siciliano all’ex segretario del Pontificio Consiglio dei Migranti, spesso critico verso il «giro di vite» del governo contro i clandestini («è già accaduto altre volte con l’arcivescovo Marchetto»), ma ai vertici della Conferenza episcopale italiana si precisa che Mogavero «parla come pastore delle popolazioni direttamente colpite dall’incidente», ma «non a titolo personale» in quanto «le sue parole sono espressione delle preoccupazioni della Chiesa locale».
La rabbia dei pescatori
LAURA ANELLO
Scuote la testa, Vincenzo Calia, 75 anni, quaranta passati sui pescherecci: «Non ne possiamo più di sopportare le angherie dei libici, qui la gente va a mare per dare un pezzo di pane alla famiglia. Se Gheddafi continua a tenersi strette le sue 75 miglia, è finita». Per tutti è zio Vincenzo, il veterano, uno che ha cominciato ragazzino tirando su le reti e ha finito la carriera come direttore di macchina. E che negli Anni 70 si è fatto pure 52 giorni a Tripoli con tutto l’equipaggio «guardati a vista, con le armi puntate, e per fortuna che non siamo finiti in prigione, perché lì erano guai seri, altro che Tunisia. Quella era una passeggiata, due giorni per pagare l’ammenda e tornavi a casa».
Storia antica, quella con la Libia, e ora arrivata a un punto di non ritorno, secondo le voci che si levano qui al porto, tra i pescherecci di quella che è ancora la marineria più grande della Sicilia anche se falcidiata dalla crisi. «C’è preoccupazione, c’è rabbia - dice Ignazio Innocenti, 57 anni trascorsi sulle barche e a riparare reti - Gheddafi vuole il mare tutto suo, così non si può campare più».
I vecchi contenziosi con la Tunisia sono alle spalle, anche perché Mazara la Tunisia ce l’ha ormai in casa: la più grande comunità magrebina dell’Isola, una kasbah nel centro storico, le scuole dove si insegna anche l’arabo. E gli uomini dell’altra sponda a bordo sui pescherecci, insieme con i mazaresi. «Una vita massacrante, peggio della miniera - dice il documentarista Stefano Savona - che è fatta di condivisione ma anche di apartheid. A bordo i tunisini sono quelli che fanno i lavori più pesanti e che guadagnano di meno». Per tutti un minimo garantito dall’armatore, 500 euro o giù di lì, il resto è rischio: più peschi, più soldi porti a casa. Il totale, sottratte le spese, si divide in parti.
Un braccio di mare che ha visto tutto, scontri e incontri di civiltà, di religione, piraterie, respingimenti, salvataggi di disperati in mare. Salvatore Cancemi, capitano del «Twenty Two», è stato premiato dall’Onu per la più eroica operazione di salvataggio nel Canale di Sicilia, il 27 novembre 2008: 300 fra uomini, donne e bambini in balia del mare forza 8. «Quando le onde portavano la nostra barca giù e la loro su, saltavano a 20-30 tutti insieme. E i nostri ad acchiapparli come tonni. Sempre pescatori siamo…», racconta. Vito Cittadino, che nel 2007 era capitano dell’Ofelia I, racconta: «Ho visto un braccio che si alzava, era un uomo su un pezzo di legno. Dopo 18 ore in acqua, la sua pelle nera era diventata bianca».
Sessanta miglia tra qui e la Tunisia, oltre 200 tra Lampedusa e la Libia, dove il Canale si allarga e diventa - per dirla con lo storico Fernand Braudel - uno dei luoghi più rischiosi del Mediterraneo. Proprio lì si va a pescare il gambero rosso, l’oro di Mazara. Lontano, lontanissimo. «Tanto che - spiegano tra le barche - prima si usciva per 25 giorni, adesso si sta fuori per 40». Guardandosi le spalle. E sperando di tornare a casa.
Pezzo storico sui contrasti Libia-Italia
FRANCESCO LA LICATA
C’è voluta l’irresponsabile mitragliata libica al peschereccio “Ariete” di Mazara del Vallo per riportare sulle prime pagine dei giornali una pantomima di politica internazionale che va avanti, irrisolta, da anni e risponde al nome di «guerra del pesce». La sventagliata di piombo ha avuto il merito di strappare all’oblio della routine ciò che continua ad accadere nell’indifferenza generale. Tutto il 2010 è stato caratterizzato dall’acuirsi dei «metodi sbrigativi» di libici e tunisini. Era toccato al peschereccio “Twenty three” «detenuto» a Sfax dal 19 luglio (23 giorni di prigionia e poi libertà in cambio di 15 mila euro di multa) e a giugno ad altre tre barche siciliane poi «liberate» per la coincidente presenza a Tripoli del nostro Presidente del Consiglio.
E’ un film che i siciliani dei Paesi costieri conoscono bene. Da decenni va in scena il copione che prevede l’abbordaggio dei nostri pescherecci accusati di essersi spinti fuori dalle acque internazionali e il successivo intervento governativo o regionale teso alla liberazione degli equipaggi. Liberazione per modo di dire, perché alla fine si è sempre trattato di decidere diplomaticamente il «prezzo giusto» da pagare ai governi nordafricani. In genere il tutto richiede qualcosa come tre settimane di carcere che, in quelle latitudini, non è esattamente una villeggiatura. Proprio per questo, dice Gaspare Marrone, comandante dell’”Ariete”, «non ci siamo fermati all’alt dei libici». Temeva, il capitano, oltre al sequestro del pescato, una lunga permanenza in carcere. E per questo si è beccato il piombo.
Eppure questa volta c’è qualcosa di diverso, al di là della stridente anomalia di vedersi sparare da una motovedetta «donata» dal governo italiano e frequentata da ufficiali della Guardia di Finanza, in borghese, per carità, così da non urtare la suscettibilità dei militari libici che forse in presenza di divise si sentirebbero in qualche modo «commissariati». Il qualcosa in più sta nelle «scuse» delle autorità africane che hanno giustificato l’intervento violento col sospetto che il peschereccio, premiato dall’Alto commissariato Onu per aver salvato centinaia di vite umane in quella fossa comune che è il Canale di Sicilia, potesse nascondere clandestini in fuga. Già, ai clandestini e a chi li aiuta si può sparare. Ecco il qualcosa in più: forse c’è un malinteso nell’accordo tra Italia e Libia che ha praticamente annullato, tra la legittima soddisfazione del Viminale, l’arrivo via mare dei disperati della terra. Le mitragliatrici non devono essere usate, né contro i clandestini né, tantomeno, contro i pescatori. Anche se si spingono qualche miglio più in là del limite stabilito a senso unico.
Post del sito LOccidentale scaricato la sera del 15 settembre 2010
L’attacco di una motovedetta libica a un peschereccio italiano "è un fatto molto grave, e c’è il forte impegno perché questi fatti non abbiano a ripetersi". Ma, in sostanza, l’amicizia fra Italia e Libia rimane così com’è. E’ questo il senso che ha dato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito rispondendo all’interrogazione del Pd durante il question time alla Camera, in merito alla vicenda dell’imbarcazione italiana mitragliata a largo di Lampedusa dalle autorità libiche.
A puntare il dito contro il Governo è stato il deputato radicale Matteo Mecacci che ha chiesto al Ministero degli Esteri una totale revisione del "Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione" stipulato dal 2008 tra i due Paesi. L’esponente Pd mette sotto accusa il Trattato: in primo luogo, con l’accordo, la maggioranza avrebbe "appaltato" la questione dell’immigrazione clandestina al raìs libico Gheddafi. Non solo, ma attraverso il partenariato si violerebbe l’articolo 10 della nostra Costituzione (quello sul diritto d’asilo in territorio italiano).
Ma Vito, che ha preso la parola al posto del ministro degli Esteri Franco Frattini, ha rispedito le accuse al mittente, spiegando che la donazione della motovedetta italiana che ha sparato sul motopesca "deriva da accordi tra Italia e Libia del 2007 e del 2009 sul contrasto dell’immigrazione clandestina, del terrorismo e del narcotraffico e da un protocollo tecnico" e "non dal trattato di amicizia tra Italia e Libia" che si richiama a quegli accordi "senza modificarli".
Insomma, la priorità è fare chiarezza sull’accaduto sono le indagini dei magistrati. E i fascicoli aperti in questo momento sono più di uno. Il primo, sulla dinamica e sulle responsabilità, è quello che stanno studiando i libici. Altri due, invece, sono stati aperti in Italia: uno dal Ministero dell’Interno, l’altro dalla magistratura di Agrigento, per tentato omicidio contro ignoti.
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni è stato chiaro: "Quello che è successo l’altro ieri sera è un fatto che non doveva accadere e la Libia si é scusata. Voglio capire quello che è successo". E la ricostruzione dei fatti riportata dal Viminale non si è fatta attendere infatti: domenica sera, non c’è stato alcun inseguimento del peschereccio italiano da parte della motovedetta libica e la Guardia di Finanza ha agito nel rispetto dei protocolli di cooperazione tra Italia e Libia (gli accordi siglati tra Roma e Tripoli spogliano, di fatto, i militari italiani a bordo delle motovedette libiche da ogni potere). Nel documento si legge che alle 19.25 i militari libici hanno aperto il fuoco prima in aria, poi in acqua e poi contro lo scafo dell’ ’Ariete’, che si trovava a "circa 30 miglia nautiche a nord della località di Abu Kammash". "Ciò nonostante – si legge ancora nel verbale – l’imbarcazione da pesca proseguiva la navigazione verso nord. Alle ore 20.00 il Comandante dell’Unità militare straniera (libica, ndr), valutata l’impossibilità di bloccare la corsa del natante fuggitivo, decideva di interrompere l’azione in attesa di ordini da parte delle Autorità libiche competenti". Dopo circa tre quarti d’ora, ricevute disposizioni dalle autorità libiche, "il comandante del Guardacoste invertiva la rotta e si dirigeva verso il porto di Zuwarah".
Per quello che riguarda le indagini svolte dai magistrati di Agrigento invece, il Procuratore Renato Di Natale ha già effettuato un sopralluogo sull’imbarcazione ’Ariete’ e nei prossimi giorni interrogherà i finanzieri che si trovavano a bordo della motovedetta.
Intanto, in merito a quanto accaduto domenica scorsa, la polemica è subito esplosa anche al di là delle interrogazioni parlamentari. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha accusato l’opposizione di essere "sempre in mala fede e contro l’interesse dell’Italia". Per il leader Idv Antonio Di Pietro occorre invece una soluzione radicale: "L’embargo economico e commerciale nei confronti della Libia fino a quando il Governo libico non si impegnerà a rispettare i trattati internazionali".
Ma per il Governo, stando a quanto riferito durante la risposta all’interrogazione parlamentare, il Trattato di Amicizia tra Italia e Libia rimane intoccabile. E prevede, vale la pena ricordarlo, risarcimenti alla Libia da parte dell’Italia per il passato coloniale e stanziamenti da destinare a progetti infrastrutturali in Libia. Inoltre, il rafforzamento della collaborazione in materia scientifica, culturale, energetica, nella lotta al terrorismo, alla criminalità e alle organizzazioni che sfruttano l’immigrazione clandestina.
Eppure, la fermezza della maggioranza in questi giorni potrebbe vacillare: "Le scuse non bastano", scrive su La Padania il presidente della Commissione Esteri della Camera Stefano Stefani, auspicando anche una ridefinizione delle regole d’ingaggio e una soluzione in merito alla questione delle acque internazinali tra Italia e Libia. Una bordata, quella padana, che potrebbe quindi tenere ancora accesi i riflettori sulle antipatie che in molti nutrono nei confronti della Libia e di Gheddafi.
(http://www.loccidentale.it/articolo/motopesca.+la+gdf+ha+rispettato+i+protocolli,+il+dialogo+con+la+libia+non+si+tocca.0095749)
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