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 2010  settembre 15 Mercoledì calendario

Kristof, la sposa bambina della poesia - «Un libro, pur triste che sia, non sarà mai triste co­me la vita»: questa la fra­se che, più di ogni altra, rac­chiude la dolorosa poetica di Agota Kristof, la scrittrice un­gherese che ha firmato capola­vori riconosciuti come Ieri e Trilogia della città di K

Kristof, la sposa bambina della poesia - «Un libro, pur triste che sia, non sarà mai triste co­me la vita»: questa la fra­se che, più di ogni altra, rac­chiude la dolorosa poetica di Agota Kristof, la scrittrice un­gherese che ha firmato capola­vori riconosciuti come Ieri e Trilogia della città di K. (editi in Italia da Einaudi). Definirla scrittrice è limitante: Agota Kristof - nata nel 1935 a Csikvand, Ungheria, ma fuggi­ta giovanissima a Neuchâtel per sottrarsi alla dittatura so­vietica - è una poetessa della parola in prosa. Tutti i suoi scritti non sono segni, ma livi­di. È una telegrafista del dolo­re: non lascia spazio all’imma­ginazione, la crocifigge. Croci­figge una realtà che vive ma che ha imparato a odiare: non scrive proclami contro le guer­re nel mondo o la fame in Afri­ca, ma contro quelle piccole, repellenti e misere ipocrisie che fanno il nostro quotidia­no e che ci ostiniamo a chia­mare vita. Tutto viene smascherato, dalla Kristof: i falsi sorrisi, le convenzioni sociali, il sentire popolare, il sentirsi individui capaci di andare oltre una sof­ferenza che dovrebbe strap­parci la pelle ogni volta che apriamo gli occhi. Li chiudia­mo, non solo nel sonno. È di questo che scrive la Kristof. Anzi, scriveva. Come mi ha confessato nel settembre 2006, in una rarissima e sua ul­tima intervista in Italia (pub­blicata su queste pagine), non ha più intenzione di scrivere. Malata di cancro, lei che ha sempre combattuto la sua bat­taglia da esule della vita attra­verso la scrittura, davanti al dolore fisico ha deciso di cede­re, di ritirarsi. Ha deciso che «davanti alla malattia non c’è parola in grado di raccontare la verità». Vive ancora a Neu­châtel, la sua sfida non l’ha an­cora vinta, ma purtroppo la promessa l’ha mantenuta. A raccontarcelo sono un li­bro e un documentario: Conti­nente K. Agota Kristof scrittri­ce d’Europa (in uscita per Ca­sagrande, euro 22). Un film di 55 minuti, girato dal regista e giornalista Eric Bergkraut, che ha per protagonista, co­me attrice principale, la stes­sa Kristof. Nel film, di grande qualità, la scrittrice ci porta nei suoi luoghi oscuri, nella città ungherese della sua in­fanzia, tra le macerie morali di un mondo che sembra non riconoscere più. Alla realtà si alternano nel film frammenti di letture (in ungherese, lei che ha sempre prediletto il francese), scene di finzioni ispirate ai suoi romanzi, ripre­se teatrali dai tanti testi che la Kristof ha dedicato al palco­scenico di carta. Nel libro, un’intervista inedita in Italia e una sua poesia mai pubblica­ta (che qui proponiamo). La Kristof, infatti, nasce co­me poetessa, ma non ha mai voluto mandare alle stampe i suoi versi, che scrive solo in ungherese. «Mi vergogno», confessa candidamente non sapendo, forse, di citare una frase geniale di Kafka: «Ogni vero poeta dovrebbe arrossi­re per ogni suo verso». E in tempi di poeti della porta ac­canto - in Italia ci sono più po­eti che impiegati statali - la sua ritrosia fa già intuire la sua grandezza. Ad Erica Du­rante, ricercatrice in Lettera­ture comparate a Parigi, che l’ha intervistata, la scrittrice mette a nudo il proprio cuore. Ribadisce, come ci aveva con­fidato nell’intervista in esclu­siva, la sua intenzione di non scrivere più e non solo: «Ho donato tutto all’Archivio Sviz­zero di Letteratura di Berna: lettere, testi, romanzi, libri della mia biblioteca, la mac­china da scrivere, il diziona­rio ungherese-francese». Uni­ca carta a rimanere in casa è quella su cui, da anni, sta scri­vendo Aglàe dans le champs , il romanzo che non vuole pub­­blicare: «Ce l’ho ancora qui, a casa; non l’ho dato all’Archi­vio, ma non è finito. L’ho ini­ziato in diversi quaderni: ho scritto abbastanza ma sem­pre la stessa scena. Ogni volta scrivo la stessa cosa». Viene in mente il protagoni­sta di Shining di Stephen King (nel film omonimo di Stanley Kubrick è Jack Nicholson), il quale, rifugiatosi in un’im­mensa stanza del grande al­bergo di montagna, batte a macchina ossessivamente sempre la stessa frase. Avver­tiamo gli stessi brividi. Ma di cosa vorrebbe parlare il libro? «Vorrei raccontare la storia di una bambina inna­moratissima dell’amico di suo padre, il pastore del pae­se. E questa è una storia vera. Voglio dire che il pastore è sta­to il mio primo amore: era il miglior amico di mio padre. C’erano due intellettuali nel paese: il maestro e il pastore. All’epoca non era ancora spo­sato ed io ero innamorata di lui, avevo sei anni. Mi voleva molto bene e mi diceva sem­pre che quando sarei stata grande mi avrebbe sposata. Ci siamo rivisti quando avevo quarant’anni ritrovando il no­stro amore, ma lui è morto po­chi mesi dopo ». La Kristof pro­cede a briglia sciolta: confes­sa che L’analfabeta , racconto autobiografico pubblicato in Italia sempre da Casagrande e molto incensato dai critici, «non è letteratura ma giornali­smo da quattro soldi». Del film tratto dal suo romanzo ca­polavoro Ieri , firmato da Sil­vio Soldini con il titolo Brucio nel vento , non ha una grande considerazione: «Il film è pes­simo. Il regista ha optato per un happy end , perché è quello che piace alla gente. Eppure ne avevamo parlato per ore, qui a casa mia». La Kristof ripercorre poi il suo amore di sempre: il tea­tro. Autrice di drammi rappre­sentati in tutto il mondo (i te­sti sono pubblicati in Italia da Einaudi) il suo è un amore vi­scerale. Come quello per la po­esia: versi inediti contro «la menzogna dei sentimenti». Ne parla poco, come dovreb­bero fare i veri poeti. E all’ulti­ma domanda «Vuole che le spedisca l’intervista?» rispon­de come solo lei può: «Molto volentieri, la leggerò e la invie­rò all’Archivio». Forse non è un happy end , ma chissà.