Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 15 Mercoledì calendario

INDIA, SCRITTORI NEL PAESE DELL’ANIMA


Anche nell’epoca della scomparsa dell’altrove e dell’esotico l’India continua a rappresentare un’alterità irriducibile. O almeno per i nostri scrittori lo è sempre stata, lungo tutto il ‘900. Prendiamo alcune opere e alcune date simboliche. Verso la cuna del mondo di Guido Gozzano esce nel 1917, postuma, ma è il resoconto di un viaggio del 1912 in India e a Ceylon. Un’idea dell’India e Un odore dell’India, rispettivamente di Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, vengono stampati nel 1961, mentre Esperimento dell’India di Giorgio Manganelli raccoglie gli articoli usciti sul “Mondo” tra il 1975 e il 1976. Infine il recentissimo Signore delle lacrime di Antonio Franchini (Marsilio). Libri ovviamente diversissimi tra loro ma partecipi di uno stesso sentimento di quei luoghi: in tutti il viaggio è trauma culturale e insondabile esperienza interiore. L’incontro fisico con il subcontinente indiano prende la forma di un qualche malessere, fatto di smarrimento e meraviglia, di scoperta e di rigetto.
Gozzano vi rivisita le buone cose di pessimo gusto in una salsa esotico-salgariana, ma non raggiunge la sperata guarigione (anzitutto dalla tisi): l’India, lungi dall’essere una culla del mondo diventa per lui “tomba del mondo”, avvolta da una putrescenza floreale. E forse chi va in India in cerca di una qualche salvezza, da Gozzano ai beat, è destinato prima o poi alla delusione.
Il laico, illuminista Moravia dopo aver detto che l’India è l’India, con una delle sue fulminanti tautologie, aggiunge che quel paese è religioso mentre l’Europa non lo è più dai tempi del Medioevo. In che senso? Nel senso che per gli indiani la religione è un modo di vivere, e cioè di vestirsi, di stare insieme, di dormire per strada... E, ancora, Moravia sottolinea che per loro la realtà, pur tangibile, è qualcosa di “fluttuante e incerto”, velo di Maja, illusione, impermanenza.
Per il viscerale Pasolini, che si immergeva spericolatamente nelle notti di Calcutta, l’India si presenta come un inferno di miseria ma abitarci è meraviglioso, perché priva totalmente di volgarità. Di fronte ai marciapiedi che rigurgitano di dormienti annota: “Tutta la strada è piena del loro silenzio: e il loro sonno è simile alla morte, ma a una morte, a sua volta, dolce come il sonno”.
Manganelli scopre che il mondo indiano è sporco, ma non lo è accidentalmente: si tratta infatti di uno sporco “originario, aurorale”, capace di dargli una “sgarbata felicità”. Il suo reportage è un’avventura barocca della lingua, che si dilata in metafore, sinestesie, preziose figure retoriche, così come l’aria tropicale, “purulenta e dolciastra”, genera “muffe e fungosità”... E anche lui nota come la “saggezza intorbidita” di quei luoghi ha una qualche sfiducia nell’esistenza stessa delle cose, concludendo che la religione in India è sì totalmente accessibile ma anche “impervia”, fantastica, losca, ridevole, repulsiva. Il tempio è una nursery di giochi e prodigi.
E qui sfioriamo un tema centrale nel Signore delle lacrime, dove si dice che i molti sadhu, i santi, sono spesso fasulli (anche Moravia parlava di filosofi e ciarlatani). Ma, aggiunge, “in un mondo di inganni anche la morte è una lotteria”. Il libro di Franchini, uno dei più belli usciti da noi in questa stagione, non è, come viene presentato, un “romanzo”, ma molto di più: diario di viaggio (in compagnia di una coppia di francesi), memoir, saggio autobiografico, minitrattato di antropologia, riflessione sulla fenomenologia delle passioni, e soprattutto meditazione sulla morte in forma di preghiera a Siva, Signore delle lacrime, del sonno e dello yoga. Siva è sì un dio distruttore (tutto disperde) ma distrugge pure la morte e dunque è anche la vita eterna. Attraverso annotazioni personali, ricordi di gioventù (in un collegio), propositi testamentari (con quali ultime parole congedarsi dai figli?), l’autore compie una specie di viaggio iniziatico. Quale ne è la meta? Probabilmente la soppressione della labile ma resistente identità individuale, di questo nostro io così ingombrante, fonte di ansie e paure, costruzione provvisoria che ci è servita molto finora, ma adesso zattera di cui liberarsi. In particolare Franchini ha in India una rivelazione: ogni divinità implica un significato e il suo contrario. Il bene si confonde con il male, la normalità con il mostruoso, e, nonostante il sistema delle caste, il puro con l’impuro. Per la semplice ragione che hanno la stessa radice. Non si censura nulla. Tutto è lì, dispiegato, alla luce del sole, senza censure. Un’esperienza quindi disturbante per chi proviene da una civiltà fondata sulla rimozione di ciò che è considerato sconveniente, del lato oscuro dell’esistenza (malattia, morte, follia, deformità...). Eppure nella culla del mondo Franchini decide di “lasciarsi impressionare dalla vita”, di non tirarsi indietro, anche perché “non siamo padroni di niente”. E verso il finale del viaggio, durante una rischiosa discesa in canoa, scioglie la sua innominabile angoscia con un urlo “senza ritegno e senza motivo”, soltanto per la gioia di esistere.