MARCO ALFIERI, La Stampa 15/9/2010, pagina 13, 15 settembre 2010
Una montagna di debiti più pesante della crisi - Sviluppiamo e vendiamo software alle Pa e a grandi imprese, ma da un paio di anni la situazione dei ritardi di pagamento è persino peggiorata», racconta Maurizio Masotti, titolare della Quattroemme Spa, un’azienda di IT da 40 addetti e 2,5 milioni di fatturato con sede a Roma
Una montagna di debiti più pesante della crisi - Sviluppiamo e vendiamo software alle Pa e a grandi imprese, ma da un paio di anni la situazione dei ritardi di pagamento è persino peggiorata», racconta Maurizio Masotti, titolare della Quattroemme Spa, un’azienda di IT da 40 addetti e 2,5 milioni di fatturato con sede a Roma. Un malcostume diffuso dal pubblico al privato che trasforma tutti in carnefici, «perché a nostra volta siamo costretti a scaricare lungo la catena il baco del contagio...». E poi i mancati incassi generano penuria di liquidità e costi finanziari, «le banche con la crisi hanno aumentato i costi di proroga fatture e dei fidi». Quattro-cinque mesi di ritardo vogliono dire un terzo di interessi passivi in più, «spingono a interrompere forniture - continua Masotti - riducendo giro di affari e personale». Basti dire che sul segmento dei servizi tecnologici la media di pagamento è ormai salita a 233 giorni, per un ammontare di crediti verso la sola Pa che sfiora i 5 miliardi. Lo sfogatoio dei piccoli in fondo è molto brutale. «Le banche ti chiedono il rientro, non scontano le fatture in ritardo e alzano gli spread, tu allora ti devi arrangiare ritardando i pagamenti. È un circuito indotto», ammette Massimo Ferlini, capo della Compagnia delle Opere di Milano. E «se la filiera salta, andiamo tutti per aria», si agita Fiore Piovesana, 73 anni, titolare di Camelgroup, un’azienda veneta di Orsago che fa mobili per l’Est Europa. «Un’impresa come la nostra, che non incorpora tutta la filiera produttiva, vive di fornitori. Se un terzista va in crisi per noi è un disastro». Già. Roberto Rovati, con la sua impresa edile da 15 addetti ha appena festeggiato i 25 anni di attività. Pavese doc, la sua piccola azienda è attiva nella manutenzione e ristrutturazione di capannoni e per il compleanno si è regalato lo stop ai lavori con il committente pubblico. «Troppi ritardi. Ci stavano portando all’asfissia». Anche perché il mondo di Rovati, che rappresenta per la Cna i costruttori lombardi, «è fatto da una miriade di subappaltatori, l’ultima anello della catena». Gli ultimi ad essere pagati… Ricapitolando. C’è stata la crisi mondiale, c’è la necessità delle imprese di crescere per internazionalizzarsi, c’è il solito rapporto perverso con le tasse e la burocrazia, ma delle volte la morale è più semplice di quel che si creda, figlia di una malagestione ostinata, come raccontano le storie metafora di tantissimi imprenditori: il cortocircuito negli incassi tra privati e Pa o tra privati e privati, il nuovo elemento devastante che ha lasciato in dote la recessione, specie in un Paese in cui il 13,2% delle imprese è a rischio insolvenza. Eppure basterebbe sanare la piaga per ridare benzina all’economia. Il ritardo dei pagamenti in Italia vale infatti 70 miliardi di euro di crediti verso la Pa, 4 punti di Pil, e 2,5 miliardi di maggiori oneri finanziari solo per il comparto artigiano. Sono una montagna di soldi. Le banche locali, che coprono il 67,5% degli sportelli delle province manifatturiere, calcolano che il 30% di nuove posizioni aperte nell’ultimo anno altro non sono che una diversificazione creditizia di Pmi, alla disperata ricerca di nuova liquidità per saldare debiti correnti. Nel frattempo l’Italia è sempre più maglia nera Ue: 130 giorni di media (con punte di 600/700 nella sanità meridionale) contro i 53 di Francia, Germania e Regno Unito. La normativa varata a Bruxelles, almeno sulla carta, rimetterà in circolo liquidità per 180 miliardi, ossigeno per i nostri Piccoli, la cui quotidianità è spesso ridotta a spoon river. Ma prima di credere alla svolta, le Pmi italiane vogliono «vedere cammello, non ci fidiamo», come ironizza Luca P., gessista a Pozzuoli, periferia ingolfata di Napoli. Un’attività artigianale tipica non fosse che, al 31 luglio 2010, Luca P. lamenta quasi 80mila euro di mancati incassi. «D’altronde l’Asl paga a 20 mesi, e poi sono in credito da oltre 7 con un’azienda di quadri elettrici a cui ho sistemato la sede». Ergo: «avevo un fido di 70mila euro con la mia banca, ma ho dovuto chiedere soldi ad un altro istituto per pagare alcuni fornitori». Ecco un altro caso di ordinario malcostume. Ovviamente il Paese è a macchia di leopardo. Le imprese più penalizzate sono appunto quelle del sud. I settori più colpiti la sicurezza, le infrastrutture, l’edilizia (piantata per il fermo degli appalti), dove ormai si paga a 24 mesi e soprattutto la sanità, il vero buco nero. Secondo i calcoli della Confindustria, al 31 dicembre 2007, i debiti degli enti sanitari verso le imprese hanno superato i 40 miliardi (12 al nord, 14 al centro e altrettanti nel Mezzogiorno). Uno stock cresciuto del 68,9% dal 2003 al 2007. Quanto agli enti locali, i Comuni avrebbero accumulato 16 miliardi di debiti, che frenano la ripartenza dei piccoli cantieri. Non bastasse, la legislazione iper-tutela il debitore pubblico. Ciascun pagamento che superi i 10mila euro permette alla Pa di verificare, attraverso Equitalia, l’esistenza a carico del creditore di debiti verso Erario e Inps. Se sì, tutto si blocca e scattano i pignoramenti, rinviando il pagamento sine die…