ALESSANDRA ZINITI, la Repubblica 15/9/2010, 15 settembre 2010
MARE NOSTRUM? - DALLE LOTTE PER LE ZONE DI PESCA AI DRAMMI DEI CLANDESTINI: TRA LA SICILIA E L´AFRICA IL MEDITERRANEO È AL CENTRO DELLE TENSIONI
Il mare di notte è buio e silenzioso. Non qui. Non più. Qui il mare urla con le voci disperate dei migranti aggrappati alle gabbie dei tonni e il nero pece in cui si incunea la navigazione dei pescherecci è acceso dalle luci delle piattaforme petrolifere e dai fari delle motovedette libiche e tunisine.
Qui, nel cuore del Canale di Sicilia, le spiagge infinite di Sfax e Al Zwara da una parte, le rocce nere di Pantelleria e le lagune di Lampedusa dall´altra, chi va per mare adesso ha paura. Hanno paura marinai e pescatori, siciliani e nordafricani spesso insieme a calare le reti nel "Mammellone" che un tempo regalava gamberoni rossi e pesci pregiati, paura di ritrovarsi in un baleno con le armi puntate addosso o rinchiusi in una prigione libica.
E hanno paura quelli che partono dall´altra sponda, milioni di disperati che affidano il loro destino ad una carretta che scivola in quel mare di notte.
Destini che si incrociano nel ventre del Mediterraneo, quel "mare nostrum" diventato palcoscenico di guerre, tragedie umane, disastri ambientali, zona di saccheggio di pirati e predoni che arrivano da ogni parte del mondo: in cerca di pesce pregiato e petrolio, di schiavi da sfruttare e reperti archeologici da contrabbandare.
In superficie si vedono gli scafisti inseguiti dalle motovedette, le imponenti e modernissime navi da pesca dei giapponesi venute a cacciare i nostri tonni, le mani nodose dei marinai siciliani che calano e recuperano reti sempre più vuote, le piattaforme con il loro carico di "formiche" umane che febbrilmente si contendono l´oro nero. Ma quello che questo mare inghiotte è un carico di orrore e disperazione: è il cimitero dei migranti, vittime di stragi silenziose che solo una volta ogni tanto vengono alla luce, è la tomba dei mille bambini morti durante il viaggio e gettati fra le onde dai genitori costretti dai compagni sopravvissuti, sono i buchi delle trivelle che scavano giù giù in profondità in cerca di petrolio, è il serpentone grigio del gasdotto tra Italia e Libia che porta da una parte all´altra del Mediterraneo il gas che tutti vogliono, sono i robot dei cacciatori di reperti archeologici che arrivano dall´America a depredare i nostri fondali.
Fino a quarant´anni fa il Canale di Sicilia era solo un mare di pesce, ora è un teatro di battaglia. Lo testimoniano le mille storie che i vecchi lupi di mare raccontano ai loro figli e ai loro nipoti sulle banchine del porto di Mazara del Vallo. Vito Scilla, una vita trascorsa in mare al comando del suo motopesca, della guerra del pesce è una delle vittime più illustri. La sua imbarcazione è stata sequestrata dalle motovedette nordafricane una decina di volte. Quello che ora fanno i libici, fino a qualche anno fa lo facevano i tunisini. Anche loro, a dispetto del diritto internazionale, le acque del "Mammellone" le hanno sempre considerate di propria competenza e la "disubbidienza" dei concorrenti siciliani l´hanno sempre affrontata a colpi di mitragliatrice. Qualche danno ai pescherecci, qualche mese in prigione, qualche multa salata da pagare, ma c´è stato anche chi, negli anni Sessanta, ci ha rimesso la vita. «È sempre stato così - racconta un anziano pescatore - quando ci sono tensioni per il traffico di clandestini, i primi a farne le spese siamo sempre stati noi gente di mare. Per una vita siamo stati inseguiti dalle motovedette con la bandiera rossa e la mezzaluna, ora ci toccano i libici». Ogni peschereccio sequestrato o mitragliato è una bandierina piazzata nelle carte navali di questi marinai che alla ricchezza del Canale affidano la vita loro e delle loro famiglie, costretti ora a tracciare rotte da slalom. «Vede, qui hanno sequestrato lo Schedir, qui vicino la "Vincenzina Giacalone, da quest´altra parte l´"Elide", qui invece ci sono le gabbie dei tonni, e qui preferiamo non andare perché è una delle rotte dei mercanti di uomini ed è meglio evitare».
Meglio evitare di imbattersi nelle urla della notte, in quei gommoni semiaffondati o in quelle carrette del mare che sbucano improvvisamente sottobordo, in quelle centinaia di mani che si tendono e chiedono acqua, coperte, soccorsi. Sono le leggi del mare contro quelle della convenienza, il cuore contro la ragione. Ad agosto dell´anno scorso, ancora increduli per quello che stavano vedendo, gli ultimi trenta sopravvissuti di un gruppo di 73 partiti venti giorni prima dalla Libia e morti di stenti, intravidero la salvezza nella sagoma di un peschereccio. Protesero le mani, urlarono, mostrarono i cadaveri a bordo, ma ebbero lanciata solo qualche bottiglia d´acqua e qualche coperta. Poi il motopesca fece marcia indietro e sparì nella notte. Così raccontò Hampton, 17enne eritreo: «Gli uomini di quel peschereccio hanno visto che stavamo morendo, ma non ci hanno portato a bordo. Speravamo che dessero l´allarme, invece siamo rimasti in mare per altri giorni e tutti gli altri che erano ancora vivi sono morti, siamo rimasti solo in cinque». Quel peschereccio non era italiano, i nostri marinai le regole del mare le rispettano anche se in tanti hanno pagato un conto salato, denunciati e processati per aver salvato vite umane. «Ma lasciarli morire, no. Siamo uomini e pescatori e rispettiamo le leggi del mare. Inutile nasconderlo, però, se possiamo evitiamo di prenderli a bordo, abbiamo paura di quello che può succedere con queste leggi assurde. Noi andiamo in mare per lavorare e ogni giorno di pesca persa è pane che togliamo ai nostri figli», dice il comandante Antonio Giacalone, uno che di immigrati sottobordo se n´è trovati parecchi. «Basta con questo paradosso: noi diamo le motovedette alla Libia e con le motovedette italiane i libici sequestrano i nostri pescherecci che pescano in acque internazionali e ci confiscano le barche. Importa a qualcuno?».
Le gabbie dei tonni: spesso ormai gli scafisti abbandonano il loro carico umano aggrappato alle trappole che servono a far ingrassare i tonni destinati al mercato dei giapponesi. Sono loro gli ultimi predoni dei nostri fondali: i tonni siciliani vengono pescati tra Malta e il golfo della Sirte, condotti lentamente, alla velocità di un nodo, per non farli soffrire fino agli allevamenti dove vengono nutriti tutti i giorni per quattro, cinque mesi con sarde, calamari e sgombri per fare "ingrassare" gli animali, naturalmente, senza mangimi, e farli venir su con quella carne rossa e grassa che piace tanto in Oriente. Poi li caricano sulle grandi navi con celle frigorifere e li portano via. È una concorrenza imbattibile per le marinerie locali, mazaresi e nordafricane, che si contendono il "Mammellone", la zona di pesca più ricca di tutto il Mediterraneo, un fondale improvvisamente basso a ridosso della piattaforma continentale africana. È qui che si pescano i dentici pregiati e i gamberoni rossi, è qui che ci si insegue, ci si sperona, è qui che le motovedette tunisine e libiche tendono i loro agguati: costringono le imbarcazioni italiane a seguirle in porto, le sequestrano con tutto il loro carico, le rilasciano solo dopo un lungo lavoro di diplomazie e soprattutto dopo un congruo esborso di denaro.
Ma è un mare da difendere a tutti i costi, adesso anche dall´attentato ambientalista. Dopo il gasdotto sono arrivate le trivelle, le piattaforme off-shore di misteriose società straniere come l´irlandese San Leon, con soli diecimila euro di capitale sociale che ha già ottenuto un´area di 482 chilonetri quadrati di fronte a Selinunte. E a Pantelleria è già esplosa la rivolta contro la piattaforma australiana della Audax comparsa improvvisamente due mesi fa a 14 miglia dalle spiagge. Di notte le sue luci illuminano come fari quello stesso mare in cui attrezzatissime navi oceanografiche, quasi sempre americane, razziano gli inestimabili tesori archeologici di quell´enorme forziere dal quale casualmente, dodici anni fa, ancora i marinai di un peschereccio di Mazara del Vallo recuperarono la meravigliosa statua bronzea del Satiro danzante rimasto impigliato per un piede ad una rete da pesca. Lì sotto, nel ventre di galeoni e velieri affondati secoli fa, giacciono ancora i suoi "fratelli" in attesa che qualcuno vada a recuperarli.