Claudio Gallo, La Stampa 14/9/2010, pagina 5, 14 settembre 2010
COME UNA PICCOLA PALESTINA
Al di là del furore scatenato tra le masse islamiche dai roghi più o meno reali del Corano, in Kashmir tutte le proteste confluiscono nell’unica protesta contro il dominio indiano, in favore dell’indipendenza. L’aggressione alla scuola cristiana accade dopo tre mesi dai tumulti indipendentisti in cui la polizia ha ucciso almeno 70 persone. Si può dire che India e Pakistan abbiano cominciato a litigare per il Kashmir prima ancora di esistere sulla carta geografica, continuando poi attraverso quattro guerre.
Nel 1947 il maharaja del Kashmir Hari Singh decise di aderire alla Repubblica indiana (nonostante il suo principato fosse per quasi l’80 per cento musulmano) promettendo però un referendum. La consultazione popolare, fatta propria da diverse risoluzioni dell’Onu, non fu mai indetta dai governanti indiani che, citando gli accordi di Simla con Islamabad (1972), sostengono che il nodo vada affrontato bilateralmente e non a livello internazionale. Ironicamente i due stati rivali, nati dall’India imperiale britannica, concordano sul fatto che il Kashmir non debba essere indipendente, la soluzione che sembra invece preferire la sua popolazione. Il governo di Manmohan Singh che sta guidando l’elefante indiano sulla strada (ancora lunga) della superpotenza globale, ha tutto sommato trascurato il problema kashmiro, sperando forse di relegarlo in una dimensione locale. Ma il Kashmir è per certi aspetti una piccola Palestina, più esotica e meno dirompente certo, ma un fuoco che si autoalimenta, una tragedia di cui non si scorge la fine. Lo scorso mese le parole di Syed Ali Geelani, il patriarca del movimento islamista, erano suonate come un’inattesa speranza. Col volto severo e ieratico, l’«uomo che non si piega» aveva esortato i manifestanti a «combattere pacificamente». «Sedetevi davanti ai poliziotti e dite loro: sono qui, sparate». La non violenza alla Gandhi non sembra aver fatto molti proseliti nelle valli del Kashmir.