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 2010  settembre 12 Domenica calendario

MINIERE IN VENDITA


Da un lato uno stato debole, corrotto, che sopravvive a stento con gli aiuti della comunità internazionale. Dall’altro compagnie minerarie il cui fatturato supera il prodotto interno lordo di molti paesi considerati «in via di sviluppo». È questa la situazione in cui si trova l’Afghanistan, dove il governo di Kabul tre anni fa (il 20 novembre 2007) ha ceduto al China Metallurgical Group il diritto esclusivo di estrarre rame dalla miniera di Aynak, 40 chilometri a sud della capitale. Il contratto si aggira intorno ai 3 miliardi e mezzo di dollari e obbliga la ditta cinese, di proprietà statale, a costruire una centrale elettrica che dovrebbe soddisfare parte del fabbisogno energetico di Kabul; realizzare una ferrovia che una volta terminata potrebbe estendersi dalla Cina al Tajikistan; edificare un ospedale e una moschea e assumere migliaia di lavoratori afghani. Secondo il ministro afghano delle miniere, Wahidullah Shahrani, con l’inizio dell’attività estrattiva previsto per il 2015 si creeranno 4.000 nuovi posti di lavoro.
Secondo le stime iniziali i benefici non riguarderebbero solo l’occupazione: uno specialista della Banca mondiale, Gary McMahon, ha sostenuto che nella sola fase di costruzione della miniera nelle casse dello stato ogni anno affluiranno 210 milioni di dollari, 283 una volta terminati i lavori preparatori. Molti soldi per un’economia che si regge sulle spalle altrui. E che andranno inevitabilmente ad alimentare il circuito della corruzione in un paese che per «Transparency International» è il secondo più corrotto al mondo.
C’è poi un aspetto politico. Con il contratto per la miniera di Aynak, la Cina è divenuta il più importante investitore in Afghanistan. E pare intenzionata a proseguire lungo la rotta politico-commerciale fin qui tracciata: tra il 2000 e il 2009, il valore dei rapporti commerciali tra Afghanistan e Cina è passato da 25 a 215 milioni.
Quello sino-afghano è un rapporto di reciproca convenienza, dunque: l’Afghanistan è «consapevole che gli Stati uniti sono un alleato temporaneo, e cerca un partner di lungo periodo nella regione», ha notato l’analista Christian Le Miere, editor del Jane’s Intelligence Review. Per questo Karzai appena può sbarca a Pechino, tornando con vantaggiosi accordi di cooperazione economica e training tecnico, oltre a tariffe agevolate per i propri prodotti. La Cina con le risorse afghane alimenta parte del proprio vorace sviluppo industriale e ha anche l’opportunità di limitare, in un’area considerata strategica, l’influenza degli Stati uniti. Quanto a Washington, alla notizia del contratto di Aynak il portavoce del dipartimento di Stato, Gordon Duguid, disse che gli Stati uniti incoraggiano tutti i membri «della comunità internazionale a interessarsi allo sviluppo economico dell’Afghanistan». Una dichiarazione diplomatica che nascondeva sentimenti diversi. Per il deputato Don Ritter, non era opportuno che un settore come quello minerario andasse a beneficio «di un paese che non ha contribuito in nulla allo sforzo militare internazionale per stabilizzare l’Afghanistan» (The Guardian, 14 giugno).
A dispetto delle preoccupazioni di Ritter però sembra che nel prossimo futuro nel settore minerario a giocarsi le carte migliori saranno i russi, grazie all’incontro tenuto di recente a Mosca tra Medvedev e Karzai, che hanno siglato accordi per un miliardo di dollari. I cinesi intanto rimangono in prima linea per aggiudicarsi la gara con cui il governo afghano metterà all’asta il sito di Hajigak, dopo averla rimandata, lo scorso febbraio, a causa del numero limitato di concorrenti. Dalla miniera di ferro di Hajigak, 100 chilometri a ovest di Kabul, il ministro Wahidullah Shahrani vuole ricavare il massimo possibile: si tratterebbe del più ampio deposito di ferro di tutta l’Asia, che secondo la Banca Mondiale potrebbe valere 350 miliardi di dollari.
Una bella cifra, ma soltanto una parte del trilione di dollari di cui si parla da quando - come rivelato dal New York Times il 13 giugno - i geologi americani, arrivati nel 2004 in Afghanistan per un programma di ricostruzione, si sono imbattuti «in un’intrigante serie di vecchie carte e di dati alla biblioteca dell’Afghan Geological Survey di Kabul». Carte e dati raccolti dai sovietici ai tempi dell’occupazione dell’Afghanistan, e alla luce dei quali gli americani dello U.S Geological Survey hanno stabilito che nel sottosuolo afghano si nasconde un vero e proprio tesoro di minerali: oro, ferro, rame e cobalto, magnesio, cromo, nikel, mercurio e litio, componente essenziale dei prodotti elettronici. Si aggiunga la recente scoperta di un giacimento petrolifero da 1.8 miliardi di barili nel nord-ovest del paese, tra Shiberghan e Balkh.
La pubblicazione dell’articolo del New York Times, favorita dal Pentagono e presto confermata dal generale Petraeus in persona, che ha parlato di «un potenziale straordinario», è sembrata sospetta a osservatori smaliziati: quei dati, già disponibili, sono stati resi noti proprio mentre le ragioni della guerra in Afghanistan appaiono sempre meno chiare con lo scopo di ribaltare l’idea che non ne valga la pena. Resta l’indiscusso potenziale economico del sottosuolo afghano: secondo Jalil Jumriany, consulente del ministero delle miniere, potrebbe diventare «la spina dorsale dell’economia afghana». Ma rimangono anche le tante preoccupazioni di organizzazioni non governative come Integrity Watch, associazione di Kabul che da almeno tre anni monitora rischi e opportunità del settore minerario: il rischio che gli abitanti delle zone interessate siano esclusi dai benefici e dalle informazioni essenziali; l’incapacità del debole governo afghano di controllare il rispetto degli accordi da parte dei colossi economici che investono nelle miniere; la disinvoltura con cui si accantonano le questioni relative alle risarcimenti per i diritti di proprietà della terra; il rischio di nuovi conflitti tra governo centrale e comunità locali; la tendenza a prendere decisioni essenziali in modo centralizzato e opaco. Non ultimi i rischi ambientali, visto che l’uso intensivo di acqua e di additivi chimici potrebbe compromettere irreversibilmente l’equilibrio ecologico delle aree dove sorgono le miniere. La legge afghana obbliga le industrie minerarie a ottenere i permessi di inizio attività dalla Nepa, l’Agenzia nazionale di protezione ambientale: ma la procedura non è stata seguita ad Aynak, dove ancora si aspetta la valutazione di impatto ambientale.
Di trasparenza non smette di parlare anche il ministro afghano per le miniere, che in una recente intervista alla Bbc ha ricordato i miglioramenti della legislazione in materia, per poi assicurare che «qualunque contratto si firmi, saranno rese pubbliche le informazioni relative». Sono molte, però, le informazioni di cui il ministro preferisce non parlare. Tra le altre, la coincidenza tra le aree di sfruttamento minerario e le aree di importanza storico-culturale. Proprio Aynak si trova in un’area di interesse archeologico straordinario, già oggetto degli scavi dell’Afghan National Institute of Archeology e della Delegazione archeologica francese, e a cui pare interessata anche la missione archeologica italiana dell’Isiao, l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente. Proprio sotto il compound cinese, è presente un’area sacra, Gol Hamid, che risalirebbe a un periodo compreso tra il V e il VII secolo dopo Cristo. Per ora Pechino fa buon viso a cattivo gioco e ha stanziato 1 milione e mezzo di dollari per gli scavi archeologi. Ma presto le ragioni economiche entreranno in contraddizione con quelle culturali.