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 2010  settembre 12 Domenica calendario

CLASSE DIRIGENTE DOVE SEI FINITA?

Leggere uno dopo l’altro i tre Discorsi per Roma capitale (1861) del conte di Cavour, che l’editore Donzelli ha avuto l’ottima idea di ristampare, è un’esperienza insieme istruttiva e frustrante. È istruttiva, perché testimonia – mentre rimbomba intorno a noi la grancassa del 150º anniversario dell’Unità – la qualità eccezionale di certi uomini che fecero l’Italia unita. È frustrante, perché illustra quanto sia siderale la distanza fra il livello della classe politica di allora e quello della classe politica di oggi.

Ciascuno di noi ha ancora sotto gli occhi lo spettacolo dell’agosto appena trascorso: con la sfera della politica ridotta alle dimensioni del cortile d’un condominio, quando non dell’aia d’un pollaio. "Politica d’agosto", potremmo forse dire per consolarci, come una volta si diceva "calcio d’agosto" e si intendeva: da settembre, sarà un’altra storia? Niente affatto. Lo dimostra la rentrée di questi giorni: in Italia, la politica d’agosto è dannatamente simile alla politica di settembre, e di tutto il resto dell’anno. La riapertura delle Camere incide ben poco sia sulla forma, sia sui contenuti del dibattito.

Ed ecco una prima buona ragione per assaporare – ma masticando amaro – discorsi parlamentari come quelli di Cavour. Perché appunto si tratta di discorsi in Parlamento. Perché essi rimandano a un tempo in cui il santuario della democrazia rappresentativa appariva come il luogo naturale per presentare al paese una linea politica e per sottometterla, attraverso il voto dei deputati, alla sanzione popolare. Bisogna leggere, centocinquant’anni dopo, le formule – di un’eleganza quasi letteraria – con cui Cavour coinvolse l’intera Camera dei deputati nella spiegazione di che cosa egli intendesse con il principio famoso, "Libera chiesa in libero stato", per toccare con mano quanta acqua sia passata sotto i ponti. Bisogna tenerle a mente, per misurare la gravità della crisi (di immagine come di sostanza) delle nostre istituzioni rappresentative. E magari per valutare l’idea di democrazia di un presidente del Consiglio che ha dichiarato, or non è molto: «Adesso diranno che io offendo il Parlamento, ma questa è la pura verità: le assemblee pletoriche sono assolutamente inutili e controproducenti».

La seconda cosa che colpisce nei discorsi di Cavour è il livello culturale di quei discorsi: non c’è quasi frase che non sia impregnata di riferimenti storici e filosofici, oltreché (più prevedibilmente) di considerazioni giuridiche. Nell’anno di grazia 1861, erano ancora di là da venire i tempi in cui i politici, sentendo parlare di cultura, avrebbero messo mano alla pistola. Se qualche giornalista delle "Iene" avesse potuto mai presentarsi con il microfono all’ingresso del Parlamento di Torino, per testare la cultura media dei deputati italiani dell’epoca, non avrebbe raccolto gli spettacolari strafalcioni che garantiscono oggi i parlamentari interrogati agli ingressi romani di Montecitorio e di Palazzo Madama.
Era questo, dobbiamo pensare, il risvolto positivo di una politica che al tempo di Cavour restava evidentemente qualcosa di élitario, precluso ai populares. Una politica orgogliosa della propria distinzione, che cercava il consenso attraverso l’esempio colto e il ragionamento complesso piuttosto che attraverso lo slogan facile, o addirittura il gesto volgare. Altro che "Roma ladrona", e diti medi alzati!

Può avere senso, oggi, consigliare ai deputati della Lega Nord di leggere i Discorsi per Roma capitale? Di sicuro, se i leghisti si attardassero sulle pagine del volumetto Donzelli, vi troverebbero anche una piccola prova che la buona politica non ha bisogno né di campanilismo, né di celodurismo. È la prova offerta da Cavour, nel suo discorso del 25 marzo 1861, quando si appellò ai colleghi deputati perorando la causa di un trasferimento della capitale del Regno d’Italia da Torino a Roma. In quel giorno fatidico, il primo ministro seppe trovare, a momenti, un registro sorprendentemente personale, quasi intimista.

«Io credo – disse Cavour – di avere qualche titolo a poter fare quest’appello a coloro che, per ragioni che io rispetto, dissentissero da me su questo punto; giacché, o signori, non volendo fare innanzi a voi sfoggio di spartani sentimenti, io lo dico schiettamente: sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città natia che essa deve rinunciare risolutamente, definitivamente ad ogni speranza di conservare nel suo seno la sede del Governo (Approvazione). Sì, o signori, per quanto personalmente mi concerne, gli è con dolore che io vado a Roma. Avendo io indole poco artistica (Si ride), sono persuaso che, in mezzo ai più splendidi monumenti di Roma antica e di Roma moderna, io rimpiangerò le severe e poco poetiche vie della mia terra natale».
Sì, l’Italia ha conosciuto anche politici come questi. Prima di perderne lo stampo.