Guido Davico Bonino, La Stampa 12/9/2010, pagina 35, 12 settembre 2010
All’Einaudi per me è stato un campione - Considero un privilegio raro e un dono immeritato della Dea Bendata, la Fortuna, d’aver vissuto per un quindicennio all’ombra di un campione, come usano dire oggi i meccanici nei loro box della Formula Uno
All’Einaudi per me è stato un campione - Considero un privilegio raro e un dono immeritato della Dea Bendata, la Fortuna, d’aver vissuto per un quindicennio all’ombra di un campione, come usano dire oggi i meccanici nei loro box della Formula Uno. Il mio campione si chiamava Italo Calvino ed il nostro box era la stanza, che dividevamo nella redazione Einaudi, al primo piano allora della torinese via Umberto Biancamano 1. Nell’ormai remoto 1961 – avevo allora ventitré anni – mi chiese a bruciapelo di succedergli come (del tutto inesperto) capufficio stampa, dopo aver letto un mio saggetto sulla sua trilogia I nostri antenati, apparso su una rivista a lui cara, «Il Caffè», fondata e diretta da Giambattista Vicari a Roma. Nel mettermi, sotto la sua guida, all’apprendistato di un mestiere di cui non sapevo nulla, mi resi conto che, pur rifiutando cariche ufficiali (direttore letterario, ad esempio) era il leader, tacitamente riconosciuto, di una squadra d’eccezione: Giulio Bollati, Daniele Ponchiroli, Roberto Cerati (oggi presidente onorario dello Struzzo), Oreste Molina: a non dire di quel talentuoso caratteraccio dell’editore in persona, il divo Giulio. La seconda cosa che compresi era che il criterio cui si ispirava, in quell’anno di praticantato con lui, era quello poi espresso nella terza delle future Lezioni americane, che – com’è noto – ha per titolo (e contenuto) Esattezza. In quelle pagine, che gli costarono un’enorme fatica (l’ultima sua, anche questo è noto), Italo sostenne che le tre componenti dell’esattezza erano un disegno dell’opera ben calcolato e ben definito; un linguaggio dal lessico il più preciso possibile, l’evocazione d’immagini nitide, incisive, memorabili. Inutile precisare che l’opera cui un ufficio stampa è chiamato è un insieme di scritture «funzionali»: il risvolto, la quarta di copertina, la fascetta di un libro; gli slogans per la sua pubblicità; i comunicati per la stampa; le note per i venditori ed i librai – una serie di «pratiche», cui Calvino non s’era sottratto mai e che oggi mi risultano, invece, affidate a persone diverse. A ventitré anni dovevo imparare da lui il disegno, le immagini, il linguaggio. «Quante righe hai? Quante ne vuoi riservare all’intreccio? Quante al suggerimento di lettura?». Mi stava, con queste domande terra-terra, parlando del disegno: «Attento, non imponi, ma proponi un libro; non lo giudichi, non ti spettano valutazioni, ma suggerisci semmai un modo di leggerlo: uno dei tanti percorsi del lettore, che non devi mai (bada bene!) intimorire, ma semmai incuriosire. Il lettore, davanti al tuo risvolto, alla tua quarta di copertina, è come al primo scambio di battute con una ragazza sul tram. Se questa gli riversa addosso un sacco di opinioni su se stessa, sugli altri, sulla società d’oggi, è probabile che se la svigni alla prima fermata. Se costei, invece, parla quel tanto che basta per incuriosirlo, è probabile che non scenda, ma al capolinea le chieda un appuntamento. E un appuntamento in libreria vuoi dire un acquisto, magari non subito, magari qualche giorno dopo...». Ma l’osso duro con lui erano le immagini e il linguaggio. Venivo da un maestro d’italianistica, Giovanni Getto, che era un vero caposcuola, un forgiatore di talenti, da Edoardo Sanguineti a Giorgio Bárberi Squarotti, da Lorenzo Mondo a Marziano Guglielminetti, da Carlo Ossola a Giorgio Ficara, per citare i più giovani. Studioso tra l’altro della letteratura barocca, ci aveva, involontariamente, inculcato uno stile «alto», con immagini spesso ricercate e vocaboli talvolta preziosi. «Dimmi, per cortesia, quante copie in più vendiamo con un’espressione come “in un trascolorare di tonalità”...». E ancora: «Io sono qui pronto a capire: ma un aggettivo come “struggente” cosa sta a significare?» (Per inciso: Claudio Magris, che allora studiava anche lui con Getto da italianista e a cui mi aveva imposto come tutor, usa ancor oggi quest’aggettivo in vari suoi interventi...). Si batteva con me perché producessi immagini incisive ed io ne producevo perlopiù di astratte e poco persuasive. Alla sua prima «lezione» (il mio tavolo era perpendicolare al suo, nella stessa stanza) aveva dichiarato, tentando d’attenuare il terrifico proposito con una smorfia d’ironia: «Io sono per una pedagogia repressiva». Il suo corso dal vivo durò trecentosessantacinque giorni esatti, ma, a conferma della verità profonda rivelataci da Sant’Agostino (il tempo non esiste, è una misura interiore dell’uomo), quell’anno fu certo il più fecondo, ma anche il più lungo della mia vita. Un pomeriggio, dalle tre del pomeriggio all’ora di cena, mi fece scrivere d’una quarta di copertina una decina di stesure successive. Alla decima e ultima mi disse, in un tono calcolatamente neutro: «Mi sembra che vada. Domani mattina le do ancora una lettura». Quando mi licenziai da Einaudi, la Dea Bendata ci mise di nuovo lo zampino. Arrigo Levi mi propose di fare il critico teatrale di questo giornale, compito che assolsi per undici anni filati. La mia prima recensione era dedicata ad Antonio e Cleopatra di Shakespeare, interpreti al Teatro Alfieri Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer. Calvino, nato a Cuba da genitori sanremesi, ma torinese per affettuosa elettività, era assiduo lettore de La Stampa. Mi telefonò da Roma, dopo aver scorso il pezzo: «Non offenderti, ma non ci siamo. Del giudizio non discuto, perché lo spettacolo non l’ho visto e di teatro non me ne intendo. Ma quell’Egitto del povero Shakespeare! Cosa ti è venuto in mente di evocarlo con tutti quei fronzoli, merletti e ninnoli! Per lui era Londra, una città melmosa e sporca...».