PIERANGELO SAPEGNO, La Stampa 12/9/2010, pagina 23, 12 settembre 2010
Chi si arrabbia si ammalerà - A vederlo così, il professor Namkhai Norbu sembra un anziano signore che ha la saggezza di uno sciamano, la sua lentezza, il suo mistero
Chi si arrabbia si ammalerà - A vederlo così, il professor Namkhai Norbu sembra un anziano signore che ha la saggezza di uno sciamano, la sua lentezza, il suo mistero. Parla con voce piana e bassa. Strano contrasto: un Maestro nella nuova capitale infelice della via Emilia. La biografia di Namkhai Norbu dice che sin da bambino «è stato riconosciuto come reincarnazione del Grande Maestro di Dzogchen Adozom Drugba», e poi «come la reincarnazione di Shabdrung Ngawang Namgyal, primo Dharmaraja del Bhutan». Probabilmente, vuole dire che è un predestinato. «Glottologo e ricercatore di fama mondiale, autore di centinaia di testi», ancora oggi, a 72 anni, Namkhai Norbu «viaggia in tutto il mondo tenendo conferenze e ritiri cui partecipano migliaia di persone». L’Associazione per la Medicina Centrata sulla Persona l’ha fatto venire a Bologna. «Lezione magistrale del professor Namkhai Norbu: La medicina tibetana, patrimonio dell’Umanità», recita la locandina. Aula magna, Università di Bologna, e un po’ di gente. Fa un certo effetto, perché la medicina tibetana è una scienza lontana, quasi una filosofia. È uno stile di vita che, come dice Simonetta Nicolai, medico e fondatore del New Yuthok Insititute for Tibetan Medicine, «considera la salute una questione di equilibrio». Vivi bene e starai bene. Facile dirlo così. Ma qui, in quella che un tempo veniva chiamata la capitale dell’edonismo, il contrasto potrebbe sembrare più evidente. Che ci fa un grande saggio nella via Emilia? Namkhai Norbu dice che «noi siamo uomini, l’uomo ha una sua esistenza individuale e la medicina soddisfa un bisogno individuale dell’uomo. Ecco il punto fondamentale per la comprensione della medicina tibetana. E per medicina non si intende soltanto un insieme di farmaci preparati con alcune erbe medicinali e qualche minerale, e neppure una semplice terapia medica. Per medicina si intende anche un insegnamento spirituale». Tra i campi di grano che si sperdono oltre ai filari di pioppo della via Emilia, oltre ai suoi miti della velocità, queste parole hanno quasi una loro lentezza incongrua in un posto come questo. Però, tutte le distanze sono colmabili. Basta vederle, basta capirle. Il fatto è che questa scienza ha le sue radici nelle credenze e nelle tradizioni popolari che si rifanno addirittura allo sciamanesimo pre-buddhista e all’antica religione del Bon. Un medico tibetano quando fa una diagnosi ricerca i sintomi che segnalino affezioni del respiro o della bile, oppure dell’apatia. Controlla gli organi dei sensi, le secrezioni e le escrezioni. Ma poi le medicine hanno una composizione naturale, e sono prodotti di erbe: non c’è chimica. Perché la malattia viene considerata soprattutto «l’alterazione del processo spirituale di un individuo», come sottolinea Paolo Roberti di Sarsina, presidente dell’Associazione per la Medicina Centrata sulla Persona. Il presupposto è che la maggior parte delle malattie della nostra epoca sono il risultato di stati mentali non equilibrati, di stili di vita scorretti e diete sbagliate. Ma se uno stato di squilibrio aiuta l’insorgere di un male, questo squilibrio è determinato da cause primarie (le emozioni distruttive: la rabbia, l’aggressività, la brama, l’odio, l’attaccamento, il desiderio, l’ignoranza, la pigrizia e la confusione mentale) e secondarie (la dieta sbagliata, le abitudini scorrette e fattori climatici stagionali). Le cure aiutano a intervenire su questi squilibri. Per questo, come sottolinea la dottoressa Nicolai, alla fine si può dire che la medicina tibetana «è profondamente collegata con la teoria e la pratica buddhista che sottolinea l’interdipendenza indivisibile della mente, del corpo e dell’energia vitale». È un sistema di salute, spiega Roberti di Sarsina. «Quindi si occupa di tecniche del corpo, come lo Yantra Yoga, che è una disciplina che tende a rendere il nostro fisico più plastico, e sensibile alla sua capacità di immagazzinare energia attraverso metodi di respirazione, meditazione e profondo ascolto interiore». In fondo, Namkhai Norbu esemplifica tutto questo. L’Aula Magna è piena. Ma il suo successo dev’essere la sconfitta di qualcos’altro. Secondo l’Eurispes, in Italia il 18,5% della popolazione, pari a 11 milioni, sceglie di curarsi con medicine non convenzionali: il fatto è che appena 5 anni fa erano 8 milioni (fonte Istat). Gli italiani che ricorrono all’omeopatia sono cresciuti del 65% nell’ultimo ventennio, con un più 6% solo nel 2009. E in Europa i pazienti che preferiscono la medicina non convenzionale sono già cento milioni, per un mercato di 1,09 miliardi di euro all’anno. È solo il mondo che sta cambiando o la saggezza di Norbu ci dice qualcosa di più?