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 2010  settembre 13 Lunedì calendario

«COSI’ HO ABBATTUTO MIO PADRE»

Dopo annunci, retromarce, tre giunte comunali e persino la richiesta del consenso dell’amministratore delegato della Borsa e della Curia, il 24 settembre verrà inaugurata a Milano la personale di Maurizio Cattelan, il nostro artista più conosciuto e quotato (otto milioni di dollari il record di una sua opera all’asta) nel mondo. Oltre alla ormai famigerata statua del dito medio alzato, pensata ad hoc per piazza Affari, era stata annunciata una retrospettiva con almeno una decina di opere, ma alla fine saranno solo tre.
Maurizio Cattelan, che cosa è successo?
«Il budget era troppo basso per una grande retrospettiva; poi il Comune ha cominciato a scremare la lista di opere indesiderate e, dopo tre rinvii, l’ok della giunta comunale è arrivato solo qualche giorno prima di agosto. A fine luglio non ero ancora in grado di ordinare la moquette rossa che sarà sotto la statua del Papa. Se non ci fosse stata la stampa a seguire il caso, oggi forse questa mostra non ci sarebbe».
Il dito in Piazza Affari resterà esposto solo dieci giorni e Palazzo Reale avrà, solo per la sua mostra, un orario ridotto a quattro ore al giorno; i manifesti pubblicitari non sono ancora comparsi in città. La sensazione è che il Comune le abbia riservato un basso profilo. Perché non ha mandato tutto all’aria?
«È un’amministrazione di roditori: hanno rosicchiato su tutto quello che potevano. In vent’anni non mi è mai successa una cosa così: vengo a sapere dai giornali cosa stanno decidendo in Comune! Sono andato avanti perché credo molto nel progetto della statua davanti alla Borsa: mi interessa la forza della piazza. E poi perché molti dei miei lavori migliori sono frutto o di errori o di situazioni come questa dove sei costretto a trasformare in positivo gli imprevisti. Alla fine le tre opere che esporrò a Palazzo Reale sono un trittico perfetto, la mia famiglia autobiografica: il padre, la madre e il figlio. Se mi fossi seduto a tavolino non mi sarebbe venuta in mente una mostra così». Ha messo in mostra la sua famiglia? «È una famiglia disfunzionale, come è stata la mia: il padre fa il Papa; la madre sostituisce il figlio in croce e il figlio non riesce a comunicare se non battendo il tamburo».
Questa interpretazione del Papa colpito dal meteorite come suo padre non l’avevamo mai sentita.
«La statua di papa Wojtyla è un lavoro del 1999 che era nato in piedi, ma non mi convinceva. A una settimana dalla mostra cominciai a pensare a come distruggerlo. Alla fine mi venne l’idea del meteorite e fu come un’illuminazione: capii che avevo abbattuto la figura del padre. Questo è quello che sanno fare i lavori importanti: se io ho avuto un’epifania, allora può averla anche qualcun altro».
Chissà come sarà contento suo padre a leggere questa rivelazione.
«A diciassette anni tentai di strangolarlo; fu allora che andai via di casa. Di giorno lavoravo otto ore, alla sera andavo a scuola: niente divertimento. Ma avevo bisogno di silenzio intorno a me: la casa era piccola e noi eravamo in troppi. È stato il cruccio di mia madre che era orfana e ha rivissuto l’abbandono». Il bambino tamburino allora è lei? «Decisamente: non posso togliermi dalla partita. Penso di essere un caratteriale, forse da piccolo molto più di adesso. Mia mamma, presa dalla disperazione, venne a chiedermi cosa non andava. Mi ricordo mezz’ora di silenzio dove nella mia testa c’erano migliaia di inizi di possibili dialoghi che non hanno mai preso forma verbale. Non era solo l’incapacità di esprimere le mie necessità, era un blocco emotivo. Io non avevo un tamburo, ma usavo il silenzio. Come ho montato il bambino nella sala delle Cariatidi è perfetto: è in alto sul cornicione, solo e distante; c’è e non c’è. Non è a livello delle altre figure ma è sospeso nel punto di vista esterno dello spettatore, quello che ho sempre usato nella vita».
Dunque la donna crocifissa è sua madre, quella che non l’ha mai baciato?
«Nell’arte la donna è la Madonna e la rappresentazione della bellezza, ma nella mia famiglia la donna era sofferenza. Quest’opera per me non è mai nata come una crocifissione invertita, ma in questo trittico mi sento di giustificarla come la mia visione domestica femminile».
Non pensa che il bambino tamburino e il Papa assieme nella sala delle Cariatidi faranno pensare agli scandali di pedofilia che hanno colpito la Chiesa?
«Si possono smembrare le opere e dare anche letture di attualità. Però l’idea a monte è unire tre opere che hanno significato moltissimo per me».
Si aspetta polemiche come per i manichini impiccati a Milano nel 2004 che furono tolti dopo un solo giorno?
«Questa ormai è una mostra certificata e già discussa sulla stampa. Quando andremo a vederla qualcuno si chiederà perché c’è stato tanto rumore per nulla. Anche la statua della mano in fondo viene da un’immagine classica come quella della mano di Costantino ai Musei Capitolini. Se non ci fosse stata la precedente avventura milanese sarebbe stata una mostra senza tanti problemi. Quando dicono che sono un manipolatore o un pubblicitario, io dico: voi che fate i giornali, i blog, siete i manipolatori. Io produco, sono gli altri che parlano».
Il dito medio alzato non è un’immagine neutra.
«Quante dita così abbiamo visto sui giornali, fatte da Bossi, dalla Santanché o da Berlusconi? Quando i politici diventano clown siamo tutti divertiti perché ci fanno sentire in un grande bar che non si chiama nemmeno Italia, ma bar Centrale. Ecco: io mi allineo con lo spirito del bar Centrale. Entro anch’io».
Ma lei non era il ribelle dell’arte? Non le dà fastidio che questa mostra arrivi, come dice lei, certificata?
«Non ho mai perseguito polemiche o strategie del ribellismo. Sono felicissimo che il vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Milano, interpellato dal Comune per non urtare la Curia, abbia visto quello che in realtà è la statua del Papa: un lavoro spirituale che parla di sofferenza. Il titolo La Nona Ora allude a quella in cui Cristo, sulla croce, chiede al Padre perché l’ha abbandonato, ma il Papa cadente si aggrappa al crocifisso. Certe cose hanno bisogno di tempo per essere digerite. Forse dieci anni non sono ancora abbastanza».
Il 21 settembre compirà cinquant’anni. Un bilancio?
«Mi sento ancora con i calzoncini corti, come se fossi cresciuto durante l’ultima notte. Sono il primo a essere sorpreso di essere arrivato qui integro».
Francesca Bonazzoli