Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 13 Lunedì calendario

LA LEZIONE SMARRITA DI ROSARIO ROMEO

Lo studioso criticò la storiografia gramsciana con saggi che indussero roventi polemiche
A duecento anni dalla nascita di Cavour, un piccolo libro curato da Guido Pescosolido ripropone un’intervista rilasciata da Rosario Romeo oltre vent’anni fa, quando quest’ultimo aveva appena concluso la sua grande biografia dedicata appunto al principale artefice dell’Unità d’Italia. Il testo ( Cavour: il suo e il nostro tempo, Le Lettere, pp. 46, € 8) ripercorre rapidamente le principali acquisizioni di un’opera tra le maggiori della storiografia italiana del Novecento; contemporaneamente, ci mette di fronte a quella che potremmo definire una doppia sfortuna. Certamente quella di Cavour, un politico geniale che ha contribuito come nessun altro alla creazione dello Stato unitario e che tuttavia gli italiani non hanno mai particolarmente amato, come ricordava alcuni giorni fa Ernesto Galli della Loggia su questo giornale; ma anche la parallela sfortuna della grande biografia di Romeo, un capolavoro della nostra storiografia che però, quando comparve in tre volumi presso Laterza (tra il 1969 e l’84), venne ignorato dalle principali riviste storiche italiane e da allora non è stato più ristampato. Ancora di recente, nelle ottocento e più pagine dell’ Annale Einaudi Il Risorgimento, l’opera veniva citata appena due volte.
Romeo, come ricorda Pescosolido nell’introduzione al libro-intervista, negli anni Cinquanta sottopose a una critica serrata l’interpretazione gramsciana del Risorgimento che, appena diffusasi con la pubblicazione dei Quaderni del carcere, aveva rapidamente avuto uno straordinario successo. Al centro di questa interpretazione stava la sconfitta dei democratici, perché incapaci secondo Gramsci di attuare una politica fondata sulla distribuzione delle terre ai contadini, che sola avrebbe potuto consentire di averne l’appoggio dando così un diverso sbocco al Risorgimento. Il giovane Romeo criticò allora l’intera storiografia gramsciana con alcuni saggi che suscitarono discussioni e polemiche accesissime, nei quali argomentava come una rivoluzione agraria nell’Italia del 1860 fosse assai improbabile e, soprattutto, come non sarebbe stata affatto auspicabile dal punto di vista del successivo sviluppo economico del Paese. Quindici o vent’anni dopo, di fronte alla biografia di Cavour, non vi fu invece nulla di paragonabile a quelle discussioni, ma un’indifferenza pressoché generale.
Un’indifferenza che rimandava all’estraneità con cui nei decenni in cui comparvero i volumi di Romeo su Cavour si guardava ormai al Risorgimento, soprattutto se considerato non nella prospettiva critica della storiografia gramsciana, bensì in quella appunto di Romeo, ostile ad enfatizzare i limiti del processo di unificazione nazionale perché convinto che, alla metà dell’Ottocento, lo Stato unitario avesse comunque rappresentato un indubbio progresso per le popolazioni della penisola. Nella conclusione della biografia cavouriana Romeo non negava affatto che l’unificazione nazionale avesse avuto nel Mezzogiorno e in altre parti del Paese un carattere autoritario, né che fosse stata prevalentemente subita da un’ampia fetta della popolazione. Ma la nuova realtà statal -nazionale nata ne l 1860 aveva rappresentato comunque un salto in avanti, scriveva, in confronto alla «realtà sonnacchiosa degli staterelli preunitari». Era un giudizio, questo del 1984, in cui Romeo mostrava di identificarsi pienamente con il grande capolavoro di Cavour — la costruzione dello Stato nazionale —; ma era anche una prospettiva sostanzialmente eccentrica rispetto agli indirizzi di gran parte della storiografia e della cultura del Paese che vedevano nel Risorgimento, semmai, l’origine di tanti mali italiani non escluso lo stesso fascismo. Ma proprio per questo chi pensa che anche oggi un’Italia delle piccole patrie non andrebbe da nessuna parte, chi non condivide certi diffusi umori antiunitari — dalle critiche leghiste al Risorgimento a quelle cattolico-tradizionaliste, a quelle infine «neoborboniche» che favoleggiano di un magnifico futuro per il Sud stroncato dall’invasione dei piemontesi — dovrebbe leggere questa intervista di Romeo e la sua grande biografia (ahimè, solo in biblioteca) con rinnovato interesse.
Giovanni Belardelli