Attilio Giordano, la Repubblica 13/9/2010, 13 settembre 2010
LA SCOMPARSA DI CALABRESE GIORNALISTA GENTILE E COLTO
Ieri mattina è morto Pietro Calabrese. È stato direttore de "Il Messaggero", di una divisione della Rai, di "Capital", della "Gazzetta dello Sport" e di "Panorama". Nel 2009 si è ammalato di tumore: una sofferenza che ha raccontato in un libro, "L´albero dei mille anni", che uscirà a fine settembre. Ai suoi familiari il cordoglio del presidente della Repubblica Napolitano, del premier Berlusconi, del presidente della Camera Fini e di quello del Senato Schifani, e di tanti politici e colleghi. I funerali si svolgeranno domani mattina alle 11 nella parrocchia romana di San Roberto Bellarmino.
Pietro Calabrese era un siciliano gentile e colto, e il fatto che molti suoi colleghi giornalisti raccontino di averlo sentito gridare, o persino urlare, non cambia la questione. Almeno se si guarda alla sfera più remota dei sentimenti, alla gentilezza d´animo. Neppure il fatto che fosse nato a Roma, l´8 maggio del 1944, lo rendeva meno palermitano, come i suoi avi.
Chi gli è stato vicino, per prima cosa, ricorda la certezza della parola e quanto potesse soffrire della disinvolta smemoratezza di chi prometteva e non manteneva. Dal 1969 in poi aveva fatto tutto: cronista parlamentare all´Ansa, corrispondente dall´estero, inviato, capo della Cultura al Messaggero e poi all´Espresso, fino a direttore del Messaggero, di una divisione Rai, del mensile Capital. E poi direttore della Gazzetta dello Sport, di Panorama... Infine collaboratore del Magazine del Corriere, di Prima Comunicazione, di Novella 2000.
Un giornalista felice del suo mestiere. «Si sedeva di fronte a me, al Messaggero», racconta Giulio Anselmi che fu suo direttore, «e facevamo a gara a chi avesse più idee per il giornale». Lui ne aveva tante? «Ne aveva troppe». Quando fu direttore, anni dopo (nel ‘96), la leggenda vuole che si sentisse «il Re di Roma», tanto da far ingelosire quello che credeva di avere tutte le carte, e i titoli, per esserlo davvero, l´editore Caltagirone. Certo, ottenne risultati straordinari di diffusione: dalla politica al gossip, aveva sfoderato una fantastica capacità di relazione, la comprensione rapida di ciò che accadeva e di ciò che un romano voleva sapere. L´altra cosa che tutti ricordano di lui: le amicizie fedeli e romantiche, terribilmente siciliane. Legate, se si vuol fare psicanalisi facile e postuma, ad un´ infanzia passata in parte in collegio, al San Giuseppe De Merode di piazza di Spagna, dove – ogni volta che gli capitava di passare – non poteva fare a meno di infilare uno sguardo, per spiare l´androne e il cortile, alla ricerca della sua vita di bambino. La corda siciliana, pazza secondo Pirandello, si manifestava in un inesausto desiderio d´avventura che ne avrebbe fatto un avventuriero, ricorda un amico, «se esistesse ancora un significato positivo di questa parola».
D´un tratto la sua carriera, e un po´ quell´avventura tutta di corsa, s´era bruscamente interrotta: nel 2007. Panorama, che era stato chiamato a dirigere, gli aveva riservato un´uscita non gloriosa. Aveva letto della sua estromissione su Dagospia. Se ne era sentito ferito, ma lo aveva confidato a pochissimi amici. Il settimanale si era avviato, in tempo d´elezioni, verso sentieri più battaglieri e garantiti. Alla Belpietro. Lui non era l´uomo giusto per una prima linea partigiana. S´era rabbuiato, raccontano. Poi, la malattia. E stavolta abbiamo il sollievo di non dover immaginare, ricostruire commossi, visto che il 29 settembre uscirà un suo libro dove ne ricostruisce lui tutte le tappe.
Parla Calabrese. E mostra un lottatore non per modo di dire, poiché un cancro non operabile a un polmone non consente finte temerarietà. Non è da eroi, certo, essersi ammalati ed è pur vero che ognuno finisce per accettare il suo destino, non per coraggio, ma per mancanza di alternative. Calabrese fece di più, ciò che sapeva fare meglio: scrisse. Prima nella sua rubrica sul Magazine del Corriere nascondendosi, per gioco o per pudore, dietro l´amico Gino che gli raccontava il suo calvario. Era lui, certo, Gino. Ed erano veri e suoi i sentimenti messi sulla carta. Chi lo conosceva, o gli voleva bene, leggeva così di Gino e si sentiva stringere il cuore. Poi, recentemente, decise di svelarsi e Gino tornò ad essere Pietro, in quel libro, «L´albero dei mille anni (all´improvviso un cancro, la vita all´improvviso)», che esce ora da Rizzoli.
Dove esordisce ricordando Woody Allen: «In questa nostra epoca le due parole più belle che si possono ascoltare non sono "ti amo", ma "è benigno"». Così, combattendo anche con le parole (che è un grande coraggio, poiché richiede di non farsi prendere dallo scoramento della paura), racconta – con umanità che lo mostra di nuovo colto e gentile, gentilissimo – le fasi comuni, ma ignote a chi è indenne, della scoperta, della cura, delle speranze, dei terrori e dei tremori notturni. Ma racconta anche della moglie Barbara, medico e dunque terribilmente cosciente, della figlia Costanza, giornalista di Canale 5, persino di Pippo, cane trovatello, qualcosa di simile a un Cirneco dell´Etna, come lui siciliano. Andando via da Panorama, nel fondo d´addio, aveva cominciato: «Be´, allora io vado». Altrove aveva scritto, citando Shakespeare: «La vita non è che un´ombra in cammino».