Roberto Da Rin, Il Sole 24 Ore 11/9/2010, 11 settembre 2010
IL CORAGGIO (INUTILE) DEI PIRCHINEROS
Scavano con pala y picota, pala e piccozza, a tratti a mani nude. Sono i pirchineros , i minatori "fai da te". Sono i moderni Sisifo, condannati a una fatica eterna. Sono gli eroi mancati che avrebbero voluto calarsi nella miniera maledetta e recuperare " Los 33", i minatori imprigionati a 700 metri di profondità dallo scorso 5 agosto. Disposti a scendere nelle viscere della terra senza tecnologia, forti della loro esperienza e della specifica conoscenza della miniera San José Le famiglie dei 33 minatori sepolti sono d’accordo, li conoscono, si fidano. Il governo cileno ha detto no. Eccoli sul costone dei cerros, le montagne desertiche di Atacama. Ce ne sono molti, piccoli gruppi, li si vede facilmente: loro, una baracca e un pick- up.Siamo a un’ora di auto dalla miniera maledetta. Sono in due, massimo in tre. Pale e piccozze, una carriola, una carrucola e la dinamite. Nient’altro.
Manuel è uno di loro, 73 anni, alto, magro, baffi folti, denti radi. Tante rughe strizzano occhi piccoli incapaci di sopportare un’altra luce che non sia quella debole e mortifera della sua vecchia lampada frontale. «Certo che sarei andato a recuperarli - dice Manuel - ne conosco molti di quei 33. Rischi? Pochi, noi sappiamo quello che facciamo. La miniera di San José, dopo lo scossone di agosto si è assestata. Le miniere, a causa degli scavi, si muovono e poi si stabilizzano. Questo sarebbe il momento giusto per entrare. Abbiamo spiegato ai geologi arrivati da Santiago che a noi basterebbe spaccare 28 metri di roccia per raggiungerli». Perché 28 metri? «I minatori sono a 700 metri di profondità, le gigantesche perforatrici debbono rimanere in superficie, non possono scendere nei budelli di roccia. Noi sì. Avremmo raggiunto, tramite i tunnel ancora agibili, il punto più vicino ai 33 e ci saremmo fatti strada con pala y picota. Ne abbiamo salvati molti, di colleghi». L’altra opzione, quella scelta dal presidente cileno Sebastian Piñera, è quella tecnologica: la perforatrice australiana, la Strata 950, quella tedesca, la T-130, la trivella dell’Enap, socio di Enel Green Power. E poi le consulenze dei tecnici della Nasa, degli esperti in geomeccanica, dei cinesi. Una tecnologia sofisticata, quelle delle macchine, lontana dall’esperienza più che centenaria dei minatori cileni.
Psyche e techne,
concetti antichi.
Pochi giorni fa al Campamento Esperanza, Alejandro Pino Uribe, memoria storica della mineraria cilena, ha rievocato un’impresa epica, l’estrazione di sette minatori rimasti sotto per una settimana, a 120 metri di profondità. Era il 1964, nella miniera Flor de the: «Imprigionati in un anfratto sentivamo battere, i soccorritori erano vicini. Ma l’acustica della miniera ci impediva di capire da dove arrivassero gli aiuti. A ognuno dei sette pareva che i colpi provenissero da direzioni diverse. Alla fine i pirchineros ci hanno tirato fuori. Indimenticabile».
Quattro tornanti sopra la baracca di Manuel c’è quella di Felipe, altro minatore "fai da te" che di anni ne ha 78. «Non posso pensare di smettere, vorrei continuare almeno altri dieci anni, magari lavorando qualche ora di meno. Inizio alle 6 di mattina e smetto alle 8 di sera. In miniera sto bene, me siento un gallo joven,
un giovanotto. Sto sempre da solo. Per questo mi voglio molto bene». Infila una mano in tasca e tira fuori una piccola pepita, poco più grande di un bottone. Felipe si prende una pausa, fa per accendersi un sigaro ma non trova l’accendino. Si incammina verso la baracca, dieci metri quadrati. Un letto con il materasso sfondato, l’immagine sacra di Nuestra Señora de La Candelaria, una vecchia cucina a gas e, appoggiati su una pietra che fa da comodino, due libretti illustrati: Cien novias para uno sherif Cento fidanzate per uno sceriffo) e Vaqueros indomitos.