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 2010  settembre 11 Sabato calendario

WASHINGTON NON HA CANCELLATO IL «CODICE ROSSO»

Il 1º agosto 2007 ascoltai Barack Obama pronunciare a Washington un discorso di politica estera diventato immediatamente famoso perché annunciava l’intenzione, una volta diventato presidente, di attaccare i terroristi "di maggior rilievo" in Pakistan anche senza l’autorizzazione della leadership pachistana.
«Dopo l’11 settembre – disse Obama – siamo stati chiamati a scrivere un nuovo capitolo della storia americana... e invece ci siamo ritrovati una politica della paura basata su colori in codice». Obama promise una politica estera "post-post 11 settembre" che sostituisse alla paura e alla belligeranza dell’era Bush un nuovo atteggiamento di apertura e opportunità. Una delle ragioni per le quali gli elettori alla fine hanno sostenuto in massa Obama era che prometteva di liberare gli americani e farli uscire dalle tenebre nelle quali erano stati precipitati dagli attentati terroristici.
Adesso che ricorre il nono anniversario dell’11 settembre-il secondo sotto la presidenza di Obama - è lecito chiedersi: «Obama ha avuto successo? Ha tolto di mezzo quella cappa fatta di paura e ossessione nei confronti del terrorismo islamico?».
La politica della paura basata sui colori in codice ha rappresentato soltanto un aspetto della "guerra al terrore" che Obama ha ereditato. Quell’aspetto- il suo lato oscuro- voleva dire tortura dei prigionieri, incarcerazione dei sospetti senza possibilità di adire le vie legali, "extraordinary rendition" e un enorme e talvolta disumano apparato di sicurezza nazionale. L’altro aspetto,l’elemento visionario - riconducibile più a Bush che a Dick Cheney - comportava la tanto auspicata metamorfosi del mondo islamico da indurre con il cambiamento dei regimi e promuovendo la democrazia. Del comune sentiredell’opinione pubblica odierna è davvero degno di nota (e molto irritante) il fatto che malgrado dopo l’11 settembre al- Qaeda abbia fallito nel suo proposito di organizzare un altro attentato su suolo americano, quell’aspetto oscuro - il lascito di Cheney- sia persistito e continui a sussistere, mentre la visione imperniata sulla trasformazione pare essere arrivata ad assomigliare a una fiacca, ingenua utopia.
In quel suo discorso del 2007, Obama ripudiò esplicitamente il ricorso alla tortura, affermando che «erano finiti i tempi nei quali si poteva scendere a compromessi con i nostri valori». In effetti, ha posto fine alle pratiche da lui considerate "tortura". Ma non ha convinto l’opinione pubblica. Gli americani oggi hanno un’opinione dell’Islam molto più negativa di quanto avessero cinque anni fa.
D’altro canto, è pur vero che si è dissolto completamente quel forte desiderio di lanciarsi in missioni e avventure con lo scopo di cambiare le cose. La popolazione considera la guerra in Iraq un fiasco completo. Un buon 43% afferma che perfino la guerra in Afghanistan è stata un "errore" sin dall’inizio. E grande è la maggioranza di coloro che hanno un’opinione molto negativa e pessimistica della promozione della democrazia.
Obama ha assunto una linea di condotta prudente- forse fin troppo prudente- in relazione a varie questioni, come la chiusura di Guantánamo o la detenzione senza processo dei prigionieri. Ma queste, effettivamente, sono questioni intrinsecamente difficili, e in nessun caso sarebbe lecito affermare che si sia lasciato andare alla politica della paura basata sui colori in codice. Nondimeno, le politiche dell’Amministrazione hanno avuto l’involontario effetto di dare grande rilevanza alle preoccupazioni che la nazione ha nei confronti delle minacce provenienti dal mondo islamico.
Sin dall’inizio del mandato,Obama ha considerato che la sua grande missione fosse quella di porre rimedio ai danni provocati in Medio Oriente dal suo predecessore. Ha concesso la prima intervista da presidente al canale d’informazione Al Arabiya; ha fatto le prime telefonate ai leader mediorientali. Il discorso di gran lunga più importante del primo anno da presidente è stato quello del Cairo, nel quale ha promesso un "nuovo inizio" in Medio Oriente.
Purtroppo, il Medio Oriente è la regione più intransigente del pianeta,il luogo nel quale l’impegno e i molteplici impegni assunti dagli Usa danno sempre i risultati più modesti. Obama ha "avuto successo" in Iraq dando una nuova definizione di successo nel momento del ritiro delle truppe. Nel frattempo, in Afghanistan gli Usa spendono ogni anno 100 miliardi di dollari, oltre - naturalmente - a tante vite preziose, mentre il tentativo di convincere il popolo afghano che il suo governo merita di essere difeso sta facendo passi indietro, se non peggio. Obama continua ad affermare che l’Afghanistan è il fronte centrale della vera guerra al terrore, ma da un recente rapporto dell’Afghanistan Study Group si evince chiaramente che «gli interessi statunitensi in gioco in Afghanistan non giustificano questo livello di sacrificio».
George Friedman, capo della società d’intelligence globale Stratfor, ha da poco scritto che «il risultato più significativo dell’11 settembre è che gli Usa sono ossessionati da un’unica regione». Egli ammette che ciò, all’indomani degli attentati, era inevitabile, ma oggi- così sostiene- è necessario chiedersi che cosa si stiano perdendo gli Stati Uniti mentre sono concentrati e indaffarati a pensare al futuro di Kandahar. Friedman condivide il medesimo scetticismo in relazione alle conseguenze di un fallimento militare in quel paese, ma con grande sangue freddo dichiara anche che «gli Stati Uniti non possono subordinare la loro grandiosa strategia alla semplice battaglia contro il terrorismo, anche se ci sono stati alcuni occasionali attentati su suolo statunitense».
Naturalmente, Kibitzers, Friedman e il sottoscritto non devono affrontare l’opinione pubblica americana. Un altro attentato terroristico renderebbe ancor più difficile di quanto già non sia per Obama portare avanti una strategia "post-post 11 settembre". E del resto non credo che Friedman abbia ragione quando afferma, per esempio, che la Russia, allorché nel 2008 ha attaccato la Georgia, ha approfittato delle preoccupazioni Usa per il Medio Oriente. Tuttavia, vi sono innegabili gravami connessi a tali preoccupazioni, e non parlo soltanto in termini di sangue e di soldi. Aumentare il contingente in Afghanistan ha ulteriormente esasperato la sensazione di pericolo imminente dell’opinione pubblica - «ci attaccheranno qui se non li fermiamo lì » - mentre non essere riusciti a fare effettivi progressi ha accresciuto il cinismo dell’opinione pubblica sulle reali capacità dell’America di plasmare un mondo migliore. Obama ha adottato da Bush la promessa che Washington debba trovare un modo per placare il mondo islamico, quantunque abbia provato a farlo in modo molto diverso. Tuttavia, anche se ciò potrà risultare vero sul lungo periodo, a breve termine si è rivelato essere un compito alquanto ingrato.
L’Amministrazione Obama, naturalmente, non può abbandonare l’iniziativa di pace in Medio Oriente che ha appena contribuito a far nascere, né può ignorare la corsa al nucleare di Teheran. Essa tuttavia può procedere da quell’"arco critico" - definizione con la quale una volta Zbigniew Brzezinski etichettò tristemente il Medio Oriente in genere - a quel mondo di opportunità invocato con così grande successo da Obama durante la sua campagna elettorale. Da questo punto di vista, il discorso del segretario di Stato Hillary Clinton al Consiglio per gli Affari esteri mi ha rincuorato. Dopo aver citato come di consueto le crisi in Medio Oriente, la Clinton è passata a parlare dei rapporti con gli alleati europei e la Nato, di assistenza allo sviluppo, della necessità di coinvolgere le potenze emergenti nell’ordine globale, di cooperazione regionale, della riforma dell’Onu e delle altre istituzioni globali, e ancora dell’obbligo di difendere e proteggere le democrazie ancora fragili. (Ovviamente, Hillary Clinton ha concluso il suo discorso definendo la politica verso l’Iran il punto d’arrivo di successo di tutte queste iniziative). Questa è l’agenda a lungo termine che è stata - per così dire - oscurata dalla crisi. Il popolo americano è dell’umore giusto per sentir parlare di architettura globale? Non saprei. Credo che sia di pessimo umore. Nondimeno, l’11 settembre 2010 dovremmo dire, come disse Obama nel 2007: «È giunta l’ora di voltare pagina».
(Traduzione di Anna Bissanti)