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 2010  settembre 12 Domenica calendario

BUROCRAZIA E SALOTTI AL MOMENTO DELL’UNITA’

I ricevimenti mondano-ufficiali nelle prefetture e nei palazzi dei ricchi casati contribuirono ad avvicinare le culture ancora divise di una Nazione improvvisata ANCHE BUROCRAZIA E SALOTTI FECERO L’UNITÀ D’ITALIA di DONATO D’URSO Il processo di unificazione dell’Italia si realizzò sui campi di battaglia e nelle cancellerie diplomatiche ma anche nei salotti. Si dice che Cavour ebbe fede negli abitanti del Bel Paese perché non li conosceva bene. Certamente l’italianizzazione dello Stato incontrò non lievi ostacoli e a Torino, nel 1860, l’aristocrazia era tanto ostile alla lingua nazionale che, quando fu avviata una raccolta di firme di quelli che s’impegnavano a usare l’italiano, i sottoscrittori non superarono la quarantina. E per molte signore della buona società subalpina la patria non andava oltre i confini del Piemonte (R. RICCI, Memorie della baronessa Olimpia Savio). La mobilità della burocrazia sul territorio fu sicuramente un fattore di unificazione, con la diffusione dell’italiano legata alla necessità di parlare col linguaggio delle leggi. «Era venuta la febbre di fondere e confondere le differenti stirpi degli impiegati, quelli di su, di giù, di destra o sinistra e viceversa» (G. GADDA, La burocrazia in Italia). Ci furono funzionari che «mostrarono grande disprezzo per le abitudini che trovarono nelle nuove residenze, magnificarono e rimpiansero il loro paese nativo, e furono ricambiati, com’è naturale, con altrettanto disprezzo ed antipatia». L’emiliano Guido Fortuzzi, quand’era prefetto a Caltanissetta, arrivò a scrivere di «pervertimento morale di questa popolazione, per la quale le idee del giusto, dell’onesto e dell’onore sono lettera morta e per conseguenza è rapace, sanguinaria». Roma si vide trattata così dalla stampa del Nord: «Di tutti i popoli che hanno una storia, è il popolo romano il solo che non ha mai sopportato la condanna comune a tutto il genere umano di vivere mediante il lavoro» (citazione in F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896). I prefetti rappresentavano il nuovo Stato liberale di fronte a un’opinione pubblica talvolta scettica e persino ostile, con i lombardi e i toscani delusi nelle loro aspirazioni di maggiore autonomia, con tanti meridionali nostalgici della vecchia dinastia, con la Chiesa tenacemente ostile. Qualche studioso ha parlato di «ossessione unitaria ed accentratrice» (E. RAGIONIERI, Politica ed amministrazione nella storia dell’Italia unita). Gaetano Salvemini coniò il termine “prefettocrazia”, mentre da altri è stata sottolineata la funzione che i rappresentanti del governo seppero svolgere, nel senso di una legittimazione del sistema liberale in periferia (R. ROMANELLI, Centralismo e autonomie). All’inizio non fu facile il compito dei prefetti “clero laico” della nazione e Giuseppe Gadda ammise sconsolato, dopo il primo periodo trascorso a Roma: «Abbiamo potuto nulla fare, tranne che imporre tasse». I nostalgici degli stati preunitari si lamentavano di “leggi alpestri” e di “proconsoli burbanzosi” e i rappresentanti del governo nazionale sentivano talvolta l’isolamento ma «lo vivevano, quasi orgogliosamente, come soldati in una fortezza chiusa e assediata, ma dominante» (F. BARTOCCINI, Roma nell’Ottocento). Il prefetto nella sua provincia era non solo il custode dell’ordine costituito ma, secondo lo storico Alberto Aquarone, un suscitatore di energie nella fiacca vita pubblica locale, un organizzatore e propulsore di iniziative, capace di esprimere una leadership non particolaristica nel contesto di poteri locali inevitabilmente frammentati. E allora persino un pianoforte poteva diventare uno “strumento politico”: Raffaele Lanza, prefetto di Massa e Carrara, chiese insistentemente al ministero di poterne acquistare uno perché era conveniente, anzi necessario «adunare la gente più influente in sua casa ed aver modo così d’investigare e indirizzare l’opinione pubblica». Il ministro Peruzzi alla fine acconsentì, argutamente chiosando che anche così si tutelava la pace sociale. Nell’Ottocento il salotto era luogo di aggregazione e di riconoscimento dei gruppi sociali. I tempi lenti del mondo preindustriale, la disponibilità che avevano i benestanti di ampie dimore, il culto della forma e delle belle maniere, tutto ciò rese l’Ottocento il secolo del salotto per eccellenza. Il salotto rispondeva a un’esigenza di socialità più libera, sia pure nel rispetto delle norme che regolavano il comportamento civile. Le donne che non avevano accesso diretto ai luoghi della politica e della scienza s’informavano e s’aggiornavano attraverso i frequentatori maschili anche stranieri. E nel salotto si affermò una figura nuova: la donna di mondo, dinamica, istruita, interessata, che conosceva le lingue, in particolare il francese. La salonnière «con una parola, con un gesto, con una occhiata sapeva ravvivare la conversazione, come sapeva evitare gli scogli d’una discussione troppo vivace. Possedeva in sommo grado tutte le qualità necessarie, indispensabili ad una padrona di casa, ad una signora avente, come suol dirsi, un “circolo” da presiedere. Perocché è stata sempre un’arte fine, sapientissima quella di governare e dirigere un “circolo” o “salotto” e che soltanto in talune dame elettissime si riscontra». Così scrissero a proposito di Giuditta Sidoli. Nella buona società del tempo per le figlie femmine valeva il principio “più educazione e meno istruzione”. Quest’ultima era poca o scarsa, impartita direttamente in casa oppure in collegi religiosi dove a volte s’insegnava solo a leggere. Secondo la milanese Maddalena Riggi «non ci insegnano a scrivere perché hanno paura che la penna serva a scrivere lettere amorose; non ci permetterebbero nemmeno di leggere se non dovessimo servirci del libro di preghiere». L’educazione musicale, compresa la danza, era invece giudicata importante per una giovane. «Il segnale del benessere fu che le famiglie cessarono di educare le figlie a guadagnarsi il pane e incominciarono a pensare che dovessero vivere contente e felici a casa» (B. S. ANDERSON – J. P. ZINSSER, Le donne in Europa. Nelle corti e nei salotti). Le ragazze di famiglia elevata e modestamente colte, al fine di migliorare la conoscenza delle lingue, solevano uscire accompagnate dalla promeneuse straniera (chi non ricorda mademoiselle Dombreuil ne Il Gattopardo?) la quale però vestiva modestamente di scuro per non rivaleggiare in eleganza. A partire dal 1848, gli avvenimenti politici spinsero la donna oltre la soglia di casa per partecipare alle comuni aspirazioni patriottiche. S’indebolì ma assai gradualmente lo stereotipo della donna legata alla dimensione della dolcezza e della famiglia (madre, sorella, sposa). Le vicende pubbliche ma anche la villeggiatura, i viaggi, i divertimenti mondani furono occasioni per l’elemento femminile di venire maggiormente a contatto col mondo. Ancora nel 1912, Giolitti affermò alla Camera che l’ammettere al voto sei milioni di donne sarebbe stato un salto nel buio Tuttavia «dalla nascita del nuovo regno usciva di fatto rafforzata l’immagine di una donna sottoposta alla tutela del marito, giuridicamente incapace ed esclusa dai diritti civili e politici. Il jus commune storico, tradizionale, rimasto in vigore in Piemonte come in tutto il resto d’Italia dall’epoca romana fino al 1848, si considerava fosse per l’esclusione della donna da uffici e funzioni di carattere pubblico. Si ritenne quindi che il jus commune fosse continuato a sussistere come jus non scriptum anche dopo la Statuto» (F. VIGNI, Le prime rivendicazioni del diritto del voto femminile). Non mancarono le proposte legislative per il riconoscimento del diritto di voto, almeno amministrativo, ma nessuna andò in porto. Anche politici progressisti come Napoleone Colajanni si dichiararono contrari, temendo in particolare un’influenza perniciosa del clero sulle masse femminili contadine. Ancora nel 1912, in occasione dell’approvazione del suffragio “quasi” universale maschile, Giolitti affermò alla Camera che l’ammettere al voto sei milioni di donne sarebbe stato un salto nel buio. Secondo la legge piemontese del 1848 l’elettorato attivo era legato prevalentemente al censo o meglio al pagamento di una certa quota di imposte dirette e, nelle elezioni amministrative, l’elettore votava in tutti i Comuni dove pagava le tasse nella misura richiesta. Era ammessa la “delegazione di censo” e al posto della contribuente vedova votava un figlio o un genero. In Italia il movimento di emancipazione del “sesso debole” era in ritardo e le donne rimasero a lungo delle minori che in molti casi passavano dalla tutela dei padri a quella dei mariti. Poche hanno lasciato rilevante traccia di sé e si dubita che le salonnières stesse fossero interessate alla “questione femminile”. Prima dell’Unità c’erano stati i salotti degli oppositori liberali, come quello di Chiara Maffei a Milano, «officine di guerra contro l’Austria avvolte da un’apparente soavità di musiche e di poesia». Loro carattere comune era la commistione, in dosi diverse, di politica, cultura e mondanità. Riuscire a organizzarne uno o soltanto parteciparvi era privilegio di poche donne. Dopo l’unificazione dell’Italia, soddisfatte le aspirazioni patriottiche, ai salotti privati politici si affiancarono quelli istituzionali e ufficiali. Il salotto, che era stato spesso centro di elaborazione culturale e iniziativa politica, accentuò le caratteristiche di ritrovo degli ottimati. Fatta eccezione per la capitale, nelle province il luogo eletto divenne la sede del Governatore poi Prefetto. Erano di regola palazzi prestigiosi, dimore persino sfarzose. «Appartamenti che erano stati di sovrani, palazzi di governatori veneti, papali, estensi, con molte e nobili stanze, alte di soffitto, con affreschi o tappezzerie, ma per me, ragazzo, care al ricordo soprattutto di tanti soppalchi e cantine, scale di servizio o sottoscale, giardini e cortili, rifugio delle mie birichinate e campo di tanti divertimenti immaginativi e romanzeschi» (G. PREZZOLINI, L’italiano inutile). Rimaneva la classica divisione degli ambienti in tre parti distinte: rappresentanza, abitazione, servizio. Le stanze per le feste erano molte: la sala da pranzo principale, un salotto di riunione, salottini minori dove s’imbandivano i rinfreschi, la sala da ballo, le sale da gioco, il fumoir. Gli uomini si astenevano dal fumare in presenza di signore e si raccontava la storiella di uno sprovveduto che, quando chiese a una dama se le dava fastidio il fumo, si sentì rispondere: «Non lo so, nessuno ha mai fumato davanti a me». Alle cinque del pomeriggio la buona società e cioè l’aristocrazia, la burocrazia, i possidenti, i professionisti, gli artisti di grido, andavano a pranzo ma era considerato una raffinatezza differire l’inizio fino alle cinque e mezzo, alle sei e anche oltre in certe stagioni. Nelle occasioni ufficiali il pranzo assumeva dimensioni smisurate con molte portate, anche dodici o quindici. Il gioco del bigliardo era molto in voga, addirittura una passione, apprezzato come esercizio fisico e mentale cosicché nelle case signorili difficilmente mancava una stanza ad esso destinata. Il fumo era ritenuto «uno dei più efficaci sollievi alle fatiche dello spirito, uno dei migliori esilaranti del cervello». I balli, “mercati di matrimoni” dove le ragazze da marito erano portate da mamme o zie compiacenti, rappresentavano la più apprezzata occasione di mondanità. In certi periodi dell’anno essi si susseguivano a ritmo frenetico e, secondo una battuta mordace, Dio s’era riposato il settimo giorno, non così i frequentatori delle sale da ballo. Nei salotti si svolgevano feste e ricevimenti, si tessevano intrighi e alleanze politiche, si concludevano affari, si intrecciavano relazioni amorose. Ecco la testimonianza di Edmondo De Amicis: «Si formavano più crocchi e la conversazione si rompeva in tanti e così diversi argomenti che, passando da un crocchio all’altro si facevano i più meravigliosi e piacevoli salti che potesse desiderare un cervello svolazzatore» (Un salotto fiorentino del secolo scorso). Non mancavano i personaggi eclettici, logorroici e vanagloriosi. Quando la conversazione era puro intrattenimento uno spazio non secondario occupava il racconto di aneddoti, storielle, barzellette e c’era sempre qualcuno che eccelleva. Nei salotti, secondo l’uso d’allora, c’era il divano lungo piuttosto duro, la bella consolle dorata con lo specchio, le sedie imbottite, il camino col parafuoco di seta, il lampadario con la cascata di prismi, la vetrinetta con le preziosità. Caratteristico era l’album della padrona di casa, dove si annotava una frase, una firma, un verso divenendo così diario della vita sociale e ricordo di celebrità più o meno note. Famoso è rimasto quello di Costanza Bougleux, moglie del marchese Luigi Gravina, che contiene autografi di Carducci, Verga, il francese Verne. Le salonnières presero l’abitudine di ricevere in giorni fissi per l’esigenza pratica di costituire una sorta di calendario degli incontri mondani. È facile immaginare quanta rivalità e voglia di prevalere si manifestasse in tutto ciò. All’inizio dell’Unità, i quattro quinti della popolazione italiana attiva era formata da contadini in gran parte analfabeti, nelle città con più di 100.000 abitanti abitava solo l’8% degli italiani, i Comuni con più di 6.000 abitanti erano meno di 400. Un’élite governava e amministrava (alle elezioni del 1861 votarono meno di 240.000 cittadini che scelsero una rappresentanza politica omologa). Nel 1861 tra i deputati vi erano «2 principi, 3 duchi, 29 conti, 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori o gran croci, 117 cavalieri di cui 3 della Legion d’onore, 135 avvocati, 25 medici, 10 preti, 21 ingegneri, 4 ammiragli, 23 generali, 1 prelato, 13 magistrati, 52 professori, 8 commercianti o industriali, 13 colonnelli, 19 ex ministri, 5 consiglieri di Stato, 4 letterati, 6 o 7 milionari, 5 banchieri, 6 maggiori, 69 impiegati, il signor Paternostro e il maestro Verdi. Vi è di tutto, il popolo eccetto. Abbiamo inoltre sei balbuzienti, cinque sordi, tre zoppi, un gobbo, degli uomini ad occhiali, un gran numero di calvi. Non un sol muto! Ciò che è una sventura» (F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA, I moribondi del Palazzo Carignano). Il noto fenomeno di osmosi tra politica e amministrazione comportava che deputati diventassero prefetti e viceversa, generali facessero gli ambasciatori, tutti ambissero a diventare senatori. E, fatto da non trascurare, i legami erano sovente non solo di amicizia o interesse ma anche di parentela. Napoli era la città dove si avvertiva più forte l’esigenza di indirizzare l’opinione pubblica a favore dell’Unità e così per le spese di rappresentanza i prefetti dell’ex-capitale borbonica avevano a disposizione la somma in assoluto più alta. Certamente il diverso ammontare dell’indennità contribuiva a rendere la sede più o meno appetibile e consentiva al governo di usare i trasferimenti come premio o punizione. La questione delle spese di rappresentanza era dibattuta perché c’era chi sosteneva che il buon governo non aveva a che vedere con i ricevimenti, i balli e i pranzi ma «con la giustizia, la probità, l’imparzialità». Altri ribattevano che «la giustizia e la probità facevano miglior spicco nella decenza del vivere secondo la propria condizione» e senza fondi di rappresentanza «si sarebbe creata solo una casta prefettizia attinta alla classe dei ricchi» (G. DE CESARE, La formazione dello stato unitario). La legge comunale e provinciale del 1865 fece gravare sulle Province le spese per “alloggio e mobilia” dei prefetti e sottoprefetti. Il regolamento di esecuzione precisava che mobili ed arredi «debbonsi intendere proporzionati alle esigenze del servizio, non che al grado ed all’importanza dei chiamati a farne uso, tenuto conto del decoro voluto per la città in cui risiedono, e in pari tempo della convenienza di non abbondare soverchiamente nella provvista di oggetti di puro lusso». Restavano comunque escluse le argenterie, le biancherie e le carrozze. A Sassari la Deputazione Provinciale negò un pianoforte al prefetto Maccaferri e il ministero, interpellato al riguardo, espresse l’avviso che non convenisse insistere. Giuseppe Prezzolini, figlio del prefetto Luigi, fu testimone di altro: «Tra la dorata e incomoda mobilia che ci veniva destinata, mancava sempre un mobile necessario per mio padre, lo scaffale; e fra tante belle sale da ricevere, che prendevano nome dal colore delle stoffe che le adornavano, la sala gialla, la rossa, la blu, mancava il locale per la biblioteca. In tante prefetture fu destino a mio padre d’entrare ed in altrettante trovò lo stesso problema da risolvere». Nelle città che erano state capitali i prefetti volevano o dovevano essere per decoro quasi dei viceré e non lesinavano le spese. Luigi Torelli a Palermo dava «udienza settimanale nello stesso giorno e nella stessa saletta già adibita a quell’uso dal vicerè, solennemente seduto – come i suoi predecessori d’Ancien Régime – sul tronetto dorato» (N. RANDERAAD, Autorità in cerca di autonomia). E così il prefetto D’Afflitto a Napoli si lagnava di «rifondere parecchie migliaia di lire dalla (sua) particolare saccoccia». A Milano il prefetto Pasolini quasi si dissanguò finanziariamente per mantenere alto il prestigio dell’istituzione: «Un carattere di eleganza particolare hanno i balli offerti dal conte Giuseppe e dalla contessa Pasolini nel palazzo del governo. Il Pasolini sentiva l’ospitalità come obbligo non solo politico ma umano, un suo motto era: “Chi non si vede si odia” e aiutato dalla moglie Antonietta Bassi socievole di natura aveva voluto anzitutto avere relazioni personali e cordiali coi cittadini», diversamente dal tempo della dominazione austriaca quando i funzionari del governo vivevano isolati dalla società civile (Storia di Milano, vol. XV). Nel febbraio 1862 nel palazzo della Prefettura di Milano si tenne un ballo in costume con duemila invitati, rimasto leggendario anche perché si calcolò che le signore avessero indossato gioielli per una dozzina di milioni di lire. Il successore di Pasolini, Salvatore Pes di Villamarina, si lamentò così con il ministro Peruzzi: «A Milano le esigenze del lusso vi sono maggiori che altrove sia per antiche abitudini, sia per le molte considerevoli fortune che sono nel Paese. Inoltre per mantenere ed estendere la propria influenza a vantaggio del Governo, il Prefetto di Milano è costretto, se vuole riuscire, a prender parte, e spesso a mettersi alla testa delle varie associazioni, di beneficenza, mutuo soccorso e simili, insomma, internarsi ed immedesimarsi cogli interessi naturali della massa per poterla dominare, dirigere, e sottrarla alle seduzioni dei partiti estremi. Ora tutto ciò cade sulle spese di rappresentanza. Se il Governo le toglie, si toglie una forza che, in certe circostanze, vale più delle baionette». Villamarina affermava polemicamente che, in caso di insufficienza del “budget”, avrebbe chiuso l’appartamento e sarebbe andato a stabilirsi in una soffitta del Palazzo. Il marchese Guiccioli, prefetto a Firenze, quando un assessore comunale osservò «con un discorso molto involuto e imbarazzato» che non erano giudicate favorevolmente le sue frequentazioni del circolo aristocratico, replicò: «Se si voleva un demagogo o un cliente delle bettole, bisognava scegliere un altro Prefetto che fosse adatto a rappresentare quella parte» (A. GUICCIOLI, Diario di un conservatore). A Salerno ricordarono a lungo i ricevimenti del conte Bardesono, prefetto a 28 anni e la cui fama di uomo galante arrivò sui giornali con allusioni neanche troppo velate a una fuga dalla finestra (definita ironicamente “esperimento forzato di aeronautica”) per sfuggire a un marito geloso. Quando decise di sposarsi gli scrisse Silvio Spaventa: «Sei dunque per ammogliarti. Niente di meglio. Così taceranno le male lingue». E che lingue!: «Lo prefetto Bardessone (sic) penza a fa’ lo primmo amoroso dinto a lo Triato de Salierno, e de sparterse la fila mmiezo strujenno no vasetto de pomata a cera a la sera!». Un altro prefetto, il conte Capitelli, a L’Aquila costituiva «l’ammirazione e la delizia delle signore pel suo amore alla danza» (E. GUSTAPANE, I prefetti dell’unificazione amministrativa nelle biografie dell’archivio di Francesco Crispi). Andrea Calenda di Tavani in un libro rievocò con poca discrezione una serie di relazioni sentimentali e un  contemporaneo ne parlò come di un uomo del tutto spensierato. Ma Calenda temette il peggio per un innocente bacio scambiato con una totina, venditrice di giornali all’ingresso del ministero a Torino: «Alzando lo sguardo vidi Lanza (Ministro dell’Interno) a capo della scala che si accingeva a discendere. La giovinetta si divincolò e fuggì, io restai lì intontito, come un seminarista colto dal vescovo sul colpo, a guardare il ministro che serio, impettito come se niente avesse visto, scendeva le scale. Passandomi di lato chinò profondamente il capo al mio saluto, e vidi errare sulle labbra un sogghigno che vorrei qui dire indefinibile, ma in verità era proprio canzonatorio “Come, sotto gli occhi del ministro?”. Io a capo basso ascesi le scale mormorando: Oh, bel concetto si formerà egli dei napoletani e di me già governatore di provincia!» (A. CALENDA DI TAVANI, O tempora o mores). Pare che nei ministeri torinesi si lavorasse poco considerato che gli impiegati più giovani passavano il tempo ad adocchiare le ballerine dell’adiacente Teatro Regio mentre i superiori, tirato il lucchetto, si distendevano sul canapè a dormire. «Non so bene di quale de’ due lavori di concetto, quello dietro le gelosie o l’altro sul canapè, cioè se in veglia o nel sonno, si giovasse di più lo Stato che pagava». Non tutti i prefetti erano ricchi di proprio ma la necessità di apparire faceva spendere oltre misura e imponeva a taluni il celibato nel senso che il matrimonio era rinviato a tempi migliori, spesso dopo i 40 anni con quello che di inopportuno poteva accadere a un prefetto celibe, come al “solito” Calenda in quel di Massa. La legge riconosceva effetti giuridici soltanto al matrimonio civile ma capitava anche (non tra i prefetti) che fosse celebrato solo il rito religioso con le conseguenze che è facile immaginare. Nella scelta della moglie erano privilegiate ovviamente le ragazze con buon appannaggio. Il codice civile del 1865 riconobbe alle figlie femmine i diritti successori ma non previde l’obbligo di fornirle di dote che rimase una mera consuetudine. Di regola la dote era costituita solo da beni mobiliari: «nel secondo Ottocento, di fronte all’obsolescenza dei grandi patrimoni rurali e alla relativa staticità della stessa rendita urbana, sta crescendo l’importanza del denaro […] per élites spesso ricche di terre e di debiti, i capitali liquidi di un contratto matrimoniale sono una delle eventualità più appetite» (P. MACRY, Ottocento). Maria De Franchi moglie del prefetto Carmine Senise portò una dote di 80.000 lire, mentre Evandro Caravaggio aggiungendo ai beni propri quelli della sposa raggiungeva un patrimonio di 200.000 lire. Sul conte Ottavio Lovera di Maria, sposato con Clementina Cusani dei marchesi di Sagliano e San Giuliano, nelle note riservate si legge l’espressione davvero inusuale: «È molto agiato e vive splendidamente». All’opposto, Emilio Celano con numerosa famiglia a carico aveva una modesta rendita di 600 lire da parte della moglie Leonilde Puoti e gli fu rimproverato d’avere adoperata una guardia di P.S. per il servizio della famiglia. Il prefetto Alessandro Magno, vedovo con prole, nonostante il nome altisonante aveva una rendita di appena 200 lire ed era addirittura gravato di molti debiti A proposito delle spose ho parlato non a caso di “ragazze”, perché la loro età spesso non superava i 20 anni e a 30 la donna era considerata già una “zitella”. «In tutte le lettere e i diari delle donne del diciannovesimo secolo trasparivano speranze, intese, delusioni e successi nel mercato del matrimonio. Mettere una figlia in grado di sposarsi bene era il traguardo più importante di una madre, e il matrimonio in sé veniva considerato la principale occupazione della donna e la decisione cruciale da cui sarebbe dipesa la sua felicità futura». Non pochi erano i casi di spose poco più che bambine cosicché si passava senza soluzione di continuità dall’educandato allo sposalizio, meta agognata anche perché «come d’incanto dopo il matrimonio si allentano i controlli famigliari e sociali, si schiudono libertà comportamentali impraticabili per le nubili» (M. DE GIORGIO, Le italiane dall’Unità ad oggi). Le ripetute gravidanze, sei-sette in genere, provocavano a volte il deperimento fisico e la morte e l’uomo rimasto solo usava risposarsi con una donna matura spesso anche lei al secondo matrimonio (ricordate Manzoni e la vedova Stampa?). La vita domestica era quella che l’educazione e le condizioni economiche consentivano e, dunque, era importante che alla retribuzione s’aggiungesse una rendita del capofamiglia o una dote consistente della moglie. Di regola le padrone di casa potevano avvalersi di numeroso personale di servizio a basso costo comprendente cuoco, camerieri, cocchiere e, se necessario, balie e bambinaie. Le signore usavano ricevere a casa la pettinatrice e la première della sarta. La disponibilità di servitù era evidentemente collegata a una condizione sociale di superiorità, successo e potere (P. LASLETT, Servi e servizio nella struttura sociale europea). I domestici spesso entravano giovanissimi nelle famiglie e vi invecchiavano maturando un legame di affetto specie coi bambini e di “orgoglio di appartenenza” alla casa raggiungendo una posizione non priva di vantaggi o di prestigio che sarebbe stata altrimenti preclusa: «Ero un ragazzino e stavo in un palco del teatro, accompagnato da un fedele usciere della Prefettura, già volontario con Garibaldi, che mio padre mandava con me nelle spedizioni perigliose» (G. PREZZOLINI, L’italiano inutile). Fuor di metafora, le mogli dei prefetti furono davvero compagne di viaggio quando le carriere significavano continui trasferimenti da una parte all’altra d’Italia. Le sedi non erano certamente equiparabili e per le condizioni ambientali quelle siciliane e sarde erano le più “temute”. Si cercavano raccomandazioni per evitarle ma la risposta era quasi sempre la stessa e cioè che la scelta della sede è fatta per le esigenze dell’ufficio non per il comodo del funzionario. Il prefetto Calenda, non ancora sposato, nel 1867 raggiunse Caltanissetta via mare sino a Palermo e poi, non essendovi strade ferrate interne, in carrozza con scorta armata per tutelarlo da aggressioni banditesche. Arrivò «stanco, polveroso, assetato, sciamannato, sudicietto». Il lamento di tutti i nisseni era “sitìo”, nonostante fossero stati spesi molti soldi per un acquedotto. Angelo Annaratone quando fu destinato a Siracusa affermò: «Sarebbe un volermi rovinare» alludendo alle condizioni della moglie Clementina Utili costretta ad affrontare quel lungo viaggio in avanzato stato di gravidanza e quando il neonato morì Annaratone scrisse accorato: «Oh! Se certe amarezze fossero conosciute da chi sta in alto» (V. G. PACIFICI, Angelo Annaratone). Anche per il prefetto Prezzolini, come ricordava il figlio, destinazione “cattiva” s’identificava con “meridionale” o “insulare” ma «per fortuna dei suoi sentimenti il tormento di esser prefetto di Messina o di Catania o di Trapani gli venne risparmiato» ma ebbe la triste sorte di perdere la moglie vinta da febbri malariche durante la permanenza a Grosseto. E se questa era la condizione vissuta dai funzionari di grado più elevato, naturalmente più critica era quella degli altri a cominciare dai sottoprefetti. L’elzeviro che riporto rende bene il disagio che essi potevano vivere in occasione dei frequenti trasferimenti: «Ho veduto partire il Sottoprefetto di… Povero uomo! Ha moglie, quattro bambini dai nove ai tre anni, una bimba in fasce, la madre settuagenaria. L’han cacciato in Sicilia. Perché? Non lo sa. L’ho visto partire lui e la sua famiglia. Facevano pietà. Viaggiavano in 2ª classe per la dignità della carica. Il bagaglio lo portavano tutto con sé, per economia. Quel povero cavaliere aveva una grossa valigia nella destra, due borse nella sinistra, gli ombrelli sotto un’ascella, un fardello sotto l’altra. La signora Dorotea aveva in braccio la bimba di un anno e si trascinava dietro il bambino di tre che piagnucolava. I due figlioletti maggiori portavano l’uno la sporta dei viveri, l’altro un’altra valigia più grande di lui. Ultima veniva la nonna che si reggeva sopra un bastoncino e brontolava. Al momento di salire in vagon la bambina si mise a strillare, il bimbo a chiedere del pane. Il povero signor Antonio imponeva maestosamente silenzio all’uno e all’altra, ma la dignità autoritaria dell’accento e il sussiego prefettizio del volto stonavano così bizzarramente coll’insieme di quel quadretto di genere che il carabiniere della stazione nel fare il saluto militare non poté trattenere un sorriso che pure era pieno di melanconia» (L’Illustrazione Italiana, 28 maggio 1876). Allorché Enrico Falconcini fu dispensato dall’ufficio di prefetto di Girgenti, aspettando il successore temette «si volesse abbandonare me e la mia famiglia alla vendetta sognata giusta e probabile di una popolazione la quale si diceva aver io stranamente angariata» (E. FALCONCINI, Cinque mesi di Prefettura in Sicilia). Ma non accadde nulla. Per le mogli c’era anche la paura dei duelli. Emilio Caracciolo di Sarno ebbe un duello con un ufficiale dal quale era stato provocato. Quando il prefetto Casalis sfidò il giornalista Roux scrisse un periodico: «Un bel soggetto per un’operetta: il prefetto si alza la domenica, manda le guardie ad arrestare quelli che vogliono battersi, denunzia al procuratore del Re due che si sono battuti. Il lunedì, il prefetto vuol battersi lui; si cava l’abito gallonato e dice: non sono più prefetto e vado a violare tutta la sezione VII del Codice penale. Il martedì, poi, torna prefetto e fa il processo a tutti, fuorché a se stesso. Il governo chiude gli occhi. E il pubblico fischia». Durante tumulti di piazza avvenuti a Brescia nell’agosto 1865, il prefetto Zoppi fu dato dai giornali per morto (invece visse sin quasi a 90 anni): «Sembravo un generale nel suo quartier generale tale era l’andare ed il venire dei delegati e dei carabinieri a dare avvisi ed a ricevere ordini». In verità, più che i rischi fisici quello che incombeva sempre sui prefetti era il pericolo di destituzione alias dispensa alias collocamento a riposo per motivi di servizio: «Il problema della stabilità non si pose mai come tale.] Il licenziamento ad nutum principis, nato sul piano della tecnica di un’amministrazione personale e privatistica, si è dunque con il tempo trasformato in un potere di rilevanza esclusivamente politica. Il ruolo storico giocato dal potere di licenziamento è stato prevalentemente quello di un fattore persuasivo e dissuasivo nello stesso tempo, sempre efficace ai fini del raggiungimento della disponibilità del corpo prefettizio alla politica governativa» (P. CASULA, I prefetti nell’ordinamento italiano). Talvolta il governo non riteneva di dare al funzionario nessuna spiegazione, altrimenti giustificava la rimozione semplicemente con la convenienza politica, come scrisse il ministro Rudinì al prefetto Guiccioli: «Caro amico, Tu sei uomo politico troppo importante, perché io ti possa considerare come un Prefetto qualunque che muta casacca al mutare di Ministero. Tu sei stato da più tempo un avversario politico mio e fra i più decisi e autorevoli. Mi trovo dunque costretto a dirti che la Prefettura di Roma non può rimanere nelle tue mani». Guiccioli cercò il conforto della moglie: «A casa trovo Olga e le narro ciò che accade. Ella con quell’energia, quel tatto e quel cuore che possiede, mi sostiene nella difficile prova». Scrissero dei coniugi Guiccioli: «Egli è il migliore amico di sua moglie, come lei è la più fidata e sincera amica del marchese» (E. PERODI, Cento dame romane). Quando i prefetti si cambiavano come le cravatte le repentine rimozioni avevano oltre che un aspetto “morale” anche deleterie conseguenze per il bilancio domestico, soprattutto per i prefetti con pesante carico di famiglia e poco consistenti rendite. Il prefetto aristocratico cercava una moglie nobile, il prefetto alto borghese una dello stesso ceto sociale. Vi erano però anche mesaillances tra aristocratici e signorine della borghesia ricca, soprattutto nel Settentrione dove essa era più potente e rispettata. Con molta discrezione si indagava sull’esistenza di tare ereditarie nella famiglia del futuro coniuge e la sifilide era al primo posto nella lista delle paure. Nel modello sociale dell’Ottocento il matrimonio combinato occupava un posto di assoluta preminenza con preferenza per i conterranei: Onorato Germanio di Druent sposò Felicita Germanio di Druent, Francesco Martello di Lecce sposò Emilia Brunetti di Lecce, Luigi Prezzolini di Siena sposò Emilia Panigiani di Siena, etc. Il nobile Calenda di Tavani a 42 anni contrasse matrimonio con una giovane che di anni ne aveva la metà: «Me l’ha scelta la mia buona mamma laggiù in Napoli, che già l’amava come una sua figliuola». La sposa si chiamava Carolina Giovanardi, era originaria come il marito di Nocera Inferiore e morì dopo sette anni di matrimonio e quattro gravidanze. La regola “mogli e buoi dei paesi tuoi” conobbe le sue eccezioni: Gioacchino Rasponi di Ravenna (era nipote di Murat e nel 1845 si pensò addirittura di farne il re delle provincie liberate dal governo papale) sposò la principessa balcanica Ghika di Valachia, Carmelo Agnetta si ammogliò con la francese Emilie Sauvet. II piemontese Bardesono sposò a Salerno Elisabetta Valles appartenente a famiglia di nostalgie borboniche e questo fatto gli attirò delle critiche. Gli scrisse l’amico Silvio Spaventa: «Né i tuoi amici, né il governo possono biasimarti di avere tu sposato una bella ragazza d’una famiglia devota alla caduta monarchia. Però qui è il punto: potrai tu poi restare a Salerno? ». A Milano il siciliano Basile sposò in seconde nozze Carlotta Bossi vedova di Giuseppe Mengoni, l’architetto della Galleria morto cadendo da un ponteggio. Il napoletano Caracciolo di Sarno sposò la novarese Teodolinda Ravizza, il conterraneo «Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile» Antonio Winspeare la modenese Albina Guicciardi, il catanese Giovanni Daniele-Vasta la veneziana Elisa Wutten. E queste unioni matrimoniali Nord-Sud allora erano significative considerati i diffusi pregiudizi dei settentrionali: Luigi Carlo Farini: «Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile». Guido Borromeo: «Avvezzi alla severa disciplina e alla sdegnosa onestà del nostro settentrione, la viltà, l’ingordigia, la venalità e la malafede che cresce in ragione cubica più si discende verso il calcagno dello stivale fanno un effetto disperante». Il ministro Domenico Berti definì i meridionali “armata di barbari accampata tra noi” e il gen. Giovanni Corvetto distinse gli italiani in “nordici e sudici”. Alla Camera l’on. Ferri affermò che come nel Settentrione c’erano isole di disonestà così nel Meridione ce n’erano di onestà. Le “prefettesse” - giovanissime o signore mature – svolgevano una funzione importante e per nulla semplice. Saper ricevere era un’arte ma secondo Chiara Maffei anche un “lavoro” e alle mogli dei prefetti spettava organizzare ricevimenti in onore di autorità locali ma anche di sovrani e principi, essere tessitrici di relazioni sociali e buone conversatrici, cortesi e amabili innanzitutto con gli ospiti stranieri affinché riportassero in patria un positivo ricordo della “nuova Italia”. Dovevano saper tacere quando necessario: il migliore elogio era di tenere salotto senza spettegolare né permettere insinuazioni e maldicenze. Anche laddove il padrone di casa era un uomo dalla forte personalità, nel salotto la figura centrale rimaneva quella della consorte che viveva lì un ruolo di assoluto prestigio. Nell’appartamento del governatore di Torino, il patrizio milanese Carlo D’Adda, s’incontravano i più importanti uomini politici compreso Cavour il quale affermò che la conversazione con donna Mariquita d’Adda era un sollievo. Anche quando a D’Adda successe Giuseppe Pasolini l’ospitalità rimase proverbiale tanto che la contessa Pasolini fu definita “la perfetta” e secondo alcuni il marito costruì le sue fortune politiche anche grazie alla rete di relazioni intrecciate nel salotto della consorte (M. T. MORI, Salotti). In piazza Castello si riceveva quasi tutte le sere ma una grave crisi maturò dopo i moti di piazza del settembre 1864 contro il trasferimento della capitale a Firenze e molti presero a disertare le sale della Prefettura «ricambiando le schiette affettuose cortesie con degli sgarbi e delle parole pungenti». Maria Roissard de Bellet sposa sedicenne di Vittorio Zoppi dovette organizzare a Salerno in men che non si dica un ricevimento per il ministro dei Lavori Pubblici e il suo numeroso seguito. Raccontò il marito prefetto: «Fui prevenuto dell’arrivo per le quattro, alle due e mezzo pomeridiane. Vado ad attenderlo alla strada ferrata, nel mentre che mi si dice che il Ministro arriverebbe in vettura veggo il vagone pieno di gente. Erano vari ingegneri, la moglie del Ministro, il Consigliere di Stato Correnti mio amico con sua moglie; in tutto una ventina di persone. Indi a poco giunse il Ministro e c’incamminammo tutti verso la mia casa. Come sfamare tanta gente!». A Milano, dopo un periodo di freddezza al tempo di Bardesono tra la Prefettura e la società milanese, la ricordata Costanza Bougleux, moglie del prefetto Gravina, contribuì a migliorare le relazioni. Scrisse un giornalista: «Le deserte sale del palazzo di via Monforte si riaprirono a frequentatissime soireés prefettizie, delle quali la marchesa Gravina era speciale ornamento. I rapporti fra la parte cosiddetta superiore della cittadinanza ed il prefetto si ripresero. La marchesa fondeva armonicamente tutti quegli elementi eterogenei della “buona società” milanese». Un contemporaneo la chiamò “amabilissima donna Costanza”, mentre il marito non fu sempre giudicato bene: “oratore infelice”, “economico sino all’avarizia”. A Roma Luisa Belloni moglie del prefetto Gadda teneva salotto settimanalmente, alternandosi con la duchessa Sant’Arpino, la principessa Falconieri, la marchesa Origo, la contessa Primoli, la contessa Bruschi. Il giornalista Ugo Pesci definì la signora Gadda «gentilissima e colta, i cui ricevimenti ante prandium – non si chiamavano ancora five ‘o clock tea – furono frequentatissimi da signore romane, “buzzurre” e straniere» (U. PESCI, I primi anni di Roma capitale). «Nei primi tempi di Roma italiana quando convennero colà d’ogni paese della penisola non solo addetti ad uffici, ma persone di vario ceto, udimmo la parola buzzurri risuonare collo stesso significato dispregiativo anche sulla bocca di coloro che erano meno propensi all’ecclesiastica potestà» (P. VIGO, Annali d’Italia. Storia degli ultimi trent’anni del secolo XIX). L’Osservatore Romano spiegava: «L’ appellativo suddetto (che letteralmente significava venditori di castagne) venne applicato ai promotori e fautori della cosiddetta civiltà piemontese. La proverbiale arguzia del popolo romano volle che questa parola fosse destinata ad additare tutti coloro che nutrono in Roma opinioni, sentimenti ed idee difformi da quelle della nostra popolazione». Ed era  continuo nella capitale il via vai di sovrani e principi, sempre imbarazzati se andare prima al Quirinale e poi in Vaticano o viceversa, tenuto conto che Pio IX aveva condannato, anzi scomunicato gli italiani come usurpatori. Per le signore di rango la beneficenza era un dovere sociale ma le iniziative in quel campo erano anche fiere di vanità e ricerca di prestigio sociale «in modo assai simile a quanto accadeva a un uomo quando veniva invitato a diventare membro di un club». Le signore più influenti facevano talvolta da specchietto per le allodole, erano i cosiddetti nomi-faro, comunque quell’attività, parallela alla gestione del salotto, era «il solo spicchio dell’ordine civile» in cui le donne occupassero posizioni direttive (M. MERIGGI, Milano borghese. Circoli ed élites nell’Ottocento). Le signore in tal modo spesso supportavano efficacemente l’opera dei mariti: la dama che teneva salotto e la gentildonna che faceva del bene s’integravano a vicenda. Le istituzioni filantropiche erano innumerevoli e s’occupavano di tutte le categorie dei bisognosi e meno fortunati: c’era il Comitato per la scrittura Braille, la Lega antischiavista, l’Associazione per la protezione della giovane, il Comitato contro la tratta delle bianche, la Società di S. Vincenzo de’ Paoli, ecc. Nel 1890 un comitato di signore romane promosse iniziative sociali a favore degli operai disoccupati con la presidenza dell’onnipresente Costanza Gravina. Talvolta però le compagne della vita costituivano un “problema”: proprio a Giuseppe Gadda i capi della massoneria rimproveravano d’avere una consorte sincera credente e intervennero decisamente anni dopo sul “fratello” Crispi per ottenere il collocamento a riposo del prefetto. Giuseppe Pirinoli e Luigi Maccaferri in note riservate patirono il giudizio di lasciarsi dominare dalle mogli. Eppure l’eccezionale Clementina Zoppis moglie di Giovanni Lanza usava dire: «Egli attende al governo dello Stato ed io tengo il governo della casa». BIBLIOGRAFIA * Memorie della baronessa Olimpia Savio, di R. Ricci - Fratelli Treves, Milano 1911 * O tempora o mores, di A. Calenda di Tavani - Angora, Nocera Inferiore 1898 * Politica ed amministrazione nella storia dell’Italia unita, di E. Ragionieri - Editori Riuniti, Roma 1979 * Salotti, di M. T. Mori - Carocci, Roma 2000 * L’educazione delle donne: scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento - FrancoAngeli, Milano 1991 * Cento dame romane, di E. Perodi - Bontempelli, Roma 1895 * Le donne in Europa. Nelle corti e nei salotti, di B. S. Anderson – J.P. Zinsser - Laterza, Bari 1993 * Storia del diritto di famiglia in Italia, di P. Ungari - Il Mulino, Bologna 1974 * La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi - Laterza, Bari 1988 * Il salotto della contessa Maffi e la società milanese, di R. Barbiera - Fratelli Treves, Milano 1896 * Salotti e ruolo femminile in Italia tra fine Seicento e primo Novecento - Marsilio, Venezia 2004 * Un salotto fiorentino del secolo scorso, di E. De Amicis - Barbera, Firenze 1902 * I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita - Laterza, Bari 1996 * Le italiane dall’Unità ad oggi, di M. De Giorgio - Laterza, Bari 1992 * Nobili e nobiltà nell’Italia unita, di G. C. Jocteau - Laterza, Bari 1997 * La Prefettura di Roma, a cura di M. De Nicolò - Il Mulino, Bologna 1998 * Potere e grandi carriere. I Winspeare, di M. M. Rizzo - Congedo Editore, Lecce 2004