Stefano Lorenzetto, il Giornale 11/9/2010, pagina 28, 11 settembre 2010
«Il lavoro per noi è una festa da santificare tutti i giorni» - Pubblichiamo un brano del nuovo libro di Stefano Lorenzetto, un’affettuosa descrizione dell’anima laboriosa della sua regione *** È sabato, e sto lavorando
«Il lavoro per noi è una festa da santificare tutti i giorni» - Pubblichiamo un brano del nuovo libro di Stefano Lorenzetto, un’affettuosa descrizione dell’anima laboriosa della sua regione *** È sabato, e sto lavorando. Domani farò lo stesso. Sarebbe peccato, lo so. Ma il precetto festivo contempla il giusto svago e non è colpa mia se l’unico hobby che coltivo è questo,il lavoro. (Anzi,l’atemporalità della videoscrittura mi consente di tornare all’inizio del file e di precisare che è già domenica, sono le 4.45 del mattino, e ho ripreso a lavorare, una sensazione euforizzante, mi sento quasi scemo quanto Dan Brown, che le sue puttanate le scrive prima dell’alba, «la parte migliore del giorno», dice, «ti svegli in uno stato di sogno, in cui distingui appena fra realtà e finzione». Ma prima di cominciare lui almeno si appende a testa in giù con gli “ stivali della gravità”, in modo da far affluire alle meningi il sangue che deve irrorare le sue paranoie gnostiche. Io manco quello, la ginnastica con i gravity boots , faccio. Lavoro e basta, appena sveglio). Se davvero la finalità del lavoro è quella di guadagnarsi il tempo libero, come pensava Aristotele, ho fallito il mio scopo. Tempo libero non ne ho e non saprei che farmene. Ho lavorato la vigilia di Natale e, lo stretto indispensabile, anche a Natale, dopo la messa dell’aurora delle 7.30.È andata già meglio dell’anno scorso, quando nel pomeriggio del santo giorno mi toccò intervistare Vittorio Sgarbi per First . Ero al lavoro pure il 31 dicembre e a Capodanno, involontario seguace di Apollinare Veronesi, il capostipite della più importante dinastia agroalimentare italiana, che nel 1926, ad appena 15 anni, aveva già preso in mano le redini del mulino di famiglia a Lugo di Valpantena, nel Veronese, poco distante da dove abito. «La notte di San Silvestro », mi raccontò, «i miei amici andavano a ballare e a far bagordi. Invece io mi chiudevo in cucina a compilare l’inventario. Non finivo mai prima dell’alba. Il bilancio del primo anno fu di 12.000 lire, il secondo di 25.000, il terzo raddoppiammo ancora: 50.000 lire. Parlo del 1929, quando i finanzieri si buttavano dalle finestre di Wall Street. Corsi trionfante da mio padre per mostrargli i conti. Lui mi raggelò: “Troppi schei. A che cosa ci servono?” » Ma almeno alle 5 della domenica Apollinare Veronesi ha sempre fermato il suo mangimificio «per rispetto al giorno del Signore». Io il computer no, mai. Lavorerò anche a Pasqua, il lunedì dell’Angelo, il 1˚ maggio – che è la mia festa – e a Ferragosto. Ora che ci rifletto, mi sposai un 30 aprile proprio per approfittaredellapausalavorativadel1 ˚ maggio. Uno sciopero annunciato per tempo dai tipografi dell’ Adige di Trento, che stampavano il settimanale del quale ero redattore capo e factotum, mi consentì di prolungare il viaggio di nozze al Lido di Venezia, 120 chilometri da casa, fino al 2 maggio. Il 3 ero di nuovo al giornale. Il lavoro è una droga che ha il sapore della medicina. Nel Veneto abbiamo sempre saputo che la parte peggiore del lavoro è ciò che ti capita quando smetti di lavorare. Potrei citare a bizzeffe casi di veneti stroncati da accidenti vascolari appena raggiunta la pensione, magari anticipata. Qui al paesello, 800 abitanti, c’erano solo due dettaglianti di generi alimentari. Quando il secondo mi annunciò che il primo avrebbe chiuso i battenti per godersi l’agognato riposo, gli predissi che il suo collega si poneva in una situazione ad alto rischio. Una settimana dopo era morto. Infarto. Quando anche il secondo, che poi era il mio fornitore di fiducia, si mise a sua volta in testa d’andare in pensione, gli ricordai la fine del primo e lo invitai a soprassedere. Non volle darmi retta. Pochi mesi più avanti fu preso per i capelli all’unità coronarica. Ora siamo senza salumieri. Il tuo lavoro, ha spiegato una volta il regista Francis Ford Coppola, corre parallelo alla tua vita, come un bicchiere pieno d’acqua che la gente definisce in questo modo: «Oh, guarda, l’acqua ha la stessa forma del vetro ». Al pari di Enzo Biagi, il cui sensorio s’accendeva per i suoi cari solo durante il pranzo di Natale ( e neanche per l’intera durata del medesimo, diciamo solo per il tempo di sorbire gli agnoli, dopodiché il pensiero ripiombava lì, sul lavoro),l’avrei fatto gratis, e invece mi hanno sempre pagato. Camillo Langone, che lavora assai meglio di me perché lavora molto meno di me, un giorno volle venire appositamente a Verona per farsi autografare la copia di un mio libro. Ora dovrei andare io fino a Parma a celebrare il medesimo rito sul frontespizio del suo Manifesto della destra divina , per puro piacere, non solo per adempiere alla legge della reciprocità. Ma non posso: ho troppo da lavorare. Leggendo Il Foglio , capii che la visita langoniana mascherava un secondo fine: «Seguo da tempo i suoi movimenti, analizzo i suoi articoli, interpello i suoi amici. Avrà dei negri? Userà delle droghe? E se sì, quali? Gli amici giurano che no, che scrive tutto da solo e senza additivi». Gli avevo svelato il banalissimo segreto delle mie interviste di un’intera pagina che proseguono ininterrottamente sul Giornale da oltre 500 settimane, e credo fosse rimasto alquanto deluso: quando gli chiedevano come facesse a comporre tanti Lieder, Franz Schubert, allievo di quell’Antonio Salieri che nacque nelle terre di mio padre e non riuscì mai a diventare Mozart, rispondeva: «Appena ne ho finito uno, ne comincio un altro». Dalla finestra dello studio vedo il campanile della chiesa. Il posto si chiama Santa Maria in Stelle. Molto devoto alla Madonna, Vittorio Messori, che abita a Desenzano del Garda, vorrebbe che ci scambiassimo le case solo per potersi fregiare del toponimo sulla carta intestata. I Cesari ci mandavano in pensione i comandanti invitti e i funzionari fedeli. Un tempo i visitatori ci venivano per vedere il Pantheon, tempio ipogeo del III secolo dopo Cristo, finemente affrescato, consacrato nel 1187 da papa Urbano III, che arrivò a dorso di somaro. Ora è chiuso perché sta cadendo a pezzi. All’ingresso,i turisti si fermavano ammirati davanti alla statua di Publio Pomponio Corneliano, indicato nelle epigrafi come «curator rerum publicarum», cioè ex console, ignorando che la testa di pietra, un capoccione d’ignota provenienza saltato fuori durante l’aratura dei campi circostanti, gli fu messa sulle spalle dai contadini qualche secolo fa. Questo Publio Pomponio aveva due figli, Giuliano e Magiano, che da Santa Maria in Stelleraggiunsero a cavallo uno l’Arabia e l’altro la Tracia, essendovi stati nominati legati dell’imperatore di Roma. Da sedentario mi vengono i sudori freddi ogni volta che ci penso. Oggi i forestieri arrivano qui col rampichino solo per scalare la collina che mi sorveglia mentre scrivo. La chiamano il Piccolo Stelvio. Comincia esattamente a 380 metri in linea d’aria dalla mia scrivania. Consta di 20 tornanti di strada sterrata che s’inerpicano dalla contrada Casai, 125 metri sul livello del mare, alla contrada Maroni, 300 metri, pendenza media 5 per cento, pendenza massima 8 per cento (ma lo so unicamente perché ho consultato Google Earth). A Pasquetta una miriade di famiglie salgono il sentiero a piedi per poi infrattarsi nel verde a ingoiare uova sode, posso dirlo con certezza perché quel giorno io lavoro e dalla finestra vedo il variopinto brulicare delle magliette fra i ciliegi.L’unica volta che l’ho percorso, è stato per provare un fuoristrada. Esatto, un detestato Suv. Esperienza poco raccomandabile. Subito sono tornato con sollievo alla mia Aeron Herman Miller traforata, che per me ormai è più d’una sedia: è un indumento. Tant’è vero che d’inverno la cambio, come si fa per gli abiti, e passo alla Forum Executive Frau di pelle nera.