Giorgio Dell’Arti, La Stampa 11/09/2010, PAGINA 80, 11 settembre 2010
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 33 - PIGLIAMOCI L’EREDITA’
Insomma Cavour era ricco.
Quattro milioni di patrimonio a fine anni Quaranta. Per una rendita di 250 mila lire l’anno. Il re aveva un patrimonio personale di tre milioni e 800 mila lire, con una rendita netta di 166 mila lire. Però con debiti per un milione e 360 mila lire. In teoria era più ricco Cavour.
Non è troppa una ricchezza simile? Anche trafficando…
Ci sono di mezzo le eredità. Zia Enrichetta non aveva lasciato niente, Adele aveva testato in favore di Augusto, il primogenito di Gustavo amatissimo dal conte. Zia Vittoria… su zia Vittoria i due fratelli la combinarono grossa.
Vale a dire?
C’è una lettera di Camillo alla zia Cécile di Ginevra, la cognata di Vittoria. Cavour mette le mani avanti con la zia, si lamenta delle chiacchiere ginevrine, dove tutti pensano che io mi stia facendo ricco alle sue spalle, ecco qua i conti, cara zia, ve li dico in anticipo perché le spiegazioni date prima valgono molto più di quelle date dopo… Segue un esame del patrimonio Clermont-Tonnerre da cui risultano un mucchio di debiti. Cavour si lamenta del fatto che la zia non abbia mai speso tanto come adesso, 150 mila franchi buttati dalla finestra negli ultimi cinque anni, «luxe asiatique», oltre tutto dannoso per il buon andamento di casa nostra. Chiama a testimone Gustavo, dichiara che la nonna Filippina e mamma Adele sono scandalizzate…
Lei non ci crede?
No. La lettera è del 2 novembre 1841, la zia Vittoria fece testamento poco dopo e aveva già il cervello abbastanza in acqua. Quando poi morì, nel ‘49, si vide che aveva lasciato alla cognata e alle nipoti svizzere solo la villa di Ginevra (il Bocage), tutto il resto era andato ai due fratelli, Gustavo e l’adorato Camillo. Camillo si disperava, almeno apparentemente, perché le care cugine ginevrine non gli rivolgevano più la parola, «che ci posso fare? che ci posso fare?», intanto però il patrimonio Clermont-Tonnerre era stato valutato un milione tre e sessanta. È vero che era stato salvato dal gran lavoro di Cavour. Però…
In che consisteva, alla fine, questo patrimonio del conte?
Liquidità per parecchie migliaia di franchi e titoli di ogni tipo, in particolare quelli relativi all’accordo con i francesi Fourrat e Blondel per una Società dei Mulini che brillasse il riso con una macchina di nuovo tipo (il famoso Molino di Collegno che inchiodò Cavour alla nomea, non immeritata, di spietato speculatore di grani, oltre tutto in palese conflitto di interessi una volta al governo). Poi c’erano stati parecchi traffici intorno alle banche di Genova e di Torino. Essendo stata aperta una banca a Genova, Cavour aveva pensato che a Torino c’era spazio per fare altrettanto. All’epoca del raccolto dei bozzoli i filatori venivano in città e, per comprare bozzoli, chiedevano denaro in prestito. Quando poi era terminata la filatura, tornavano per vendere, ma chi comprava pagava di rado in contanti, pretendendo in genere almeno sessanta giorni. Dunque c’erano come minimo due momenti nel corso dell’anno in cui si formava uno spazio per il credito. Dopo aver arruolato i piccoli capitalisti della città (i Vicino, i Casana, i Defernex, i Dupré) tirò dentro anche Soldati, e il barone Duport a nome dei capitalisti di Lione, infine si rassegnarono a entrare anche Nigra e Barbaroux, che, non volendo concorrenza, all’inizio avevano boicottato il progetto. La Banca di Torino si fece poi che Cavour era già in politica, ed è importante perché dalla sua fusione con quella di Genova venne fuori alla fine la Banca d’Italia…
Stavamo dicendo del patrimonio.
Sì, oltre a questo, zia Vittoria aveva diviso la sua proprietà in parti uguali tra Gustavo e Camillo. Dunque, alla morte di Michele (1850) e in base all’inventario che ne ha fatto il Romeo, a Gustavo rimase Santena e a Camillo il castello e la cascina di Belforte e Trofarello. Tutto il resto venne diviso in parti uguali. Cioè: Leri, Grinzane, le cascine di Isolabella a Poirino, di Galle a Trofarello e Cambiano, di Cellarengo con bosco annesso nel comune omonimo, altre cascine alla Motta con vari mulini a Cavour e Barge, i palazzi di Torino e Chieri, più una quantità di beni minori che farebbero l’elenco troppo lungo. Quattro milioni di valore, anzi di più.
E la politica?
In che senso?
Era riuscito a far soldi, ma… la politica? Tutto quel lavoro sui poveri, il liberalismo, l’unità d’Italia, la costituzione e il Parlamento… Finito tutto?
Far politica in senso stretto voleva dire entrare in qualche modo nel governo di Carlo Alberto, e questo non era possibile per una questione di «dignità personale». Carlo Alberto e la sua corte gli facevano ribrezzo. Far politica nell’altro senso, cioè lavorare per porre termine all’assolutismo, significava offrire ai rivoluzionari, ai repubblicani, ai mazziniani o addirittura ai comunisti (Engels aveva cominciato a martellare nel ‘39) un’occasione che quei satanassi non si sarebbero certamente lasciati sfuggire. Dunque c’era un solo modo in quel momento di far politica seriamente: star fermi.