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 2010  settembre 11 Sabato calendario

Intervista a Battiato: “La mia Sicilia dionisiaca come Bufalino” - «Vedo, rilancio, passo»: il gran maestro della canzone italiana, Franco Battiato, punta pesante a poker

Intervista a Battiato: “La mia Sicilia dionisiaca come Bufalino” - «Vedo, rilancio, passo»: il gran maestro della canzone italiana, Franco Battiato, punta pesante a poker. In senso letterale: scommette corposi tomi dell’Adelphi al posto delle fiches. Intorno al tavolo, impegnato a vincere un Thomas Bernhard o un Hermann Hesse, a giocarsi Robert Walser o Joseph Roth, c’è il patron della casa editrice che all’epoca - siamo a metà Anni Settanta - sta scoprendo la letteratura mitteleuropea: Roberto Calasso. Carte in mano, con lui, ci sono la scrittrice Fleur Jaeggy, Ombretta Colli (che nel 1965 aveva sposato Giorgio Gaber, pigmalione nel mondo dello spettacolo del giovane Battiato) e lo stesso musicista. I libri che intascavate dovevate poi dimostrare di averli pure letti? «Mica eravamo a scuola», obietta divertito il guru della canzone italiana, nonché regista, pittore e scrittore. L’autore dell’Era del cinghiale bianco per soddisfare i suoi appetiti e la sua bibliomania oggi ha trasformato la villa di Milo - dalle cui vetrate si intravede un albero di fico che sbuca da un pozzo e un meraviglioso angolo di mare - in una fantastica casa-biblioteca (circa diecimila volumi). Qui, nel parco dell’Etna, tra nespole e prugne, alloggiano testi e autori tra i più curiosi, i più particolari e i più rari: Battiato, musicista veramente libridinoso, colleziona opere in cui si specula di sufismo, buddhismo, dervisci, filosofia orientale, cibernetica e positivismo. Opere che non ha rintracciato passeggiando sulla Senna o frugando nelle bancarelle dei bouquinistes o in rare librerie antiquarie, bensì standosene nel suo buen retiro nei pressi di Catania. «Oggi con Internet navighi e trovi tutto quello che desideri», osserva il compositore assai legato anche agli scrittori siciliani. Da anni calca le scene in compagnia del filosofo di Lentini Manlio Sgalambro, mentre a giorni uscirà Don Gesualdo, un cofanetto dedicato a Gesualdo Bufalino con libro e dvd (da Bompiani), composto da spezzoni di interviste e testimonianze di Piero Guccione, Leonardo Sciascia e Sgalambro. Cosa l’attrae nei conterranei? Quella corda pazza di cui parlava Leonardo Sciascia, che contraddistingue non solo Pirandello? «Ci sono narratori dell’isola, come Bufalino, Sgalambro, Tomasi di Lampedusa, che hanno esordito tardi. E’ come se, per anni, avessero puntato un grande telescopio sul mondo circostante. Dando poi fondo alle proprie riserve e restituendoci, come fa Bufalino, romanzi di una sensualità straripante, una Sicilia dionisiaca, piena di sapori e di colori». La libridine, come virus, se la riconosce? L’ha contagiata da ragazzino? «Il vocabolo non mi piace per niente. Nessuna “malattia” infantile, di questo tipo. Da ragazzino passavo molto tempo nel laboratorio di sartoria di mia zia. Con lei c’erano una quindicina di ragazze che imparavano l’arte del cucito. Chiacchieravano in continuazione per interrompere la monotonia del lavoro e non facevano altro che parlare e sparlare di uomini, spesso giudicandoli dall’aspetto. Ho imparato così una specie di fisiognomica popolare (Nel 1988 Battiato pubblicò l’album dal titolo Fisiognomica che fu uno dei grandi successi dell’anno, ndr). Leggevo poco: L’interpretazione dei sogni di Freud, L’amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence, che ha alimentato, solo per il tempo della lettura, i miei sogni erotici, e i testi del padre della cibernetica moderna, che è stato il più giovane studente universitario, dodicenne, della storia americana, Norbert Wiener. A 23 anni mi resi conto di essere ignorantissimo». Così si impegna nel recupero del tempo perduto, focalizzandosi su Joyce (a cui tra l’altro nel 1999 dedica «Finnegans Wake»), Dostoevskij, Stendhal, Proust, Tolstoj e altri ancora. Tra gli italiani? «Tommaso Landolfi, giocatore d’azzardo, scrittore con la “maschera”, come diceva di lui Montale, dalla lingua complessa e ricercata. Rien va è il libro che più mi ha coinvolto, all’arsenico». Il filone mistico quando lo scopre? «Dopo una crisi esistenziale della fine degli Anni Sessanta. Raccontiamola così: mi trovavo a New York e avevo più di un dubbio sulla vita, sullo stare al mondo e sugli umani. Ero nella metropolitana e aspettavo il treno che vedevo arrivare. Ho provato l’irresistibile tentazione di buttarmi. Era come il canto di una sirena, un’attrazione fatale come quella che percepisci quando, a una certa altitudine, il vuoto ti appare come una malia, un richiamo. Ho dovuto afferrarmi a una colonna per non farlo. Ero agli inizi della mia ricerca mistica. Avevo già letto Sri Aurobindo e Paramahansa Yogananda». Nel mondo della cultura lei, da sempre, si è mosso andando controcorrente, con una spiccata identità anche negli anni delle più accese passioni politiche, dei conflitti a fuoco, delle stragi. «La nostra storia sembra un magma in cui tutto viene a galla, ma non è così. Molte cose resteranno per sempre nascoste. Esiste un mondo subumano che fa paura». Per non sprofondarci dentro? «Reagii facendo musica e leggendo. Gialal al-Din Rumi, il poeta persiano, fondatore della confraternita sufi dei “dervisci rotanti”. Poi concentrandomi sulle pagine di Georges Ivanovic Gurdjieff in cui mi sono riconosciuto anche perché in Clic avevo già espresso idee molto simili. E ancora, nella lista degli autori di quegli anni, ci sono Santa Teresa d’Avila, San Francesco d’Assisi e San Giovanni della Croce». Quando ha incontrato «Gilgamesh», il mitico re dei Sumeri che regnò su Uruk, a cui ha dedicato la sua opera lirica? «Ho cominciato a occuparmene venendo a conoscenza di nuovi ritrovamenti testuali. Ora sto lavorando a un film sulla vita di Georg Friedrich Händel. Scelgo sempre personaggi che posseggono, oltre al talento, la trascendenza. Händel detestava l’idea di divertire il pubblico. Penso che il dovere di un artista sia cercare di creare opere che aiutino l’essere a crescere moralmente e spiritualmente. Tornando al film, anche se ancora non abbiamo firmato i contratti, mi hanno dato la loro disponibilità Johannes Brandrup nella parte di Händel, Willem Dafoe e Susan Sarandon». Sveglia alle 5-5 e 30, musica per un’oretta, poi comincia il lavoro. E alla sera? Cosa c’è sul suo comodino? «In questi giorni l’opera di Dzogchen Ponlop, uno dei più eruditi maestri di meditazione che, lucido e acutissimo, riflette sulla cultura occidentale e sulla moderna tecnologia. Ci insegna a non giocare d’azzardo con la signora con la falce». E dunque? «A prepararci per tempo all’appuntamento che ci attende. Il flusso continuo di nascita e morte è una benedizione che dà senso alla vita e le impedisce di essere statica e stagnante. Credo nel passaggio da un’esistenza all’altra». Lei è molto pessimista? «Per nulla. Ogni tanto una qualche sana malinconia... in fondo come Bufalino e Pirandello. In Stage door si canta “sapessi che dolore l’esistenza che vede nero dove nero non ce n’è...”». La sua massima preferita? «Quella di uno sconosciuto compositore del Seicento: “detrattori, alla larga da me”».