BRUNO VENTAVOLI, Tuttolibri La Stampa 11/9/2010, pagina VI, 11 settembre 2010
Quanti sogni di carta prima del buio in sala - Quando non esisteva ancora Internet che rende i sogni più rapidi, e più piccoli, il banner non era una striscia pulsante sui siti on line, ma un lembo di tela o di cartoncino serigrafato, lungo oltre tre metri, con le immagini accattivanti delle star
Quanti sogni di carta prima del buio in sala - Quando non esisteva ancora Internet che rende i sogni più rapidi, e più piccoli, il banner non era una striscia pulsante sui siti on line, ma un lembo di tela o di cartoncino serigrafato, lungo oltre tre metri, con le immagini accattivanti delle star. Manifesti giganti, locandine, cartoline, e svariati altri ausiliari colorati, contribuivano tutti alla fortuna di un film. Prima dell’era tv, erano i muri delle strade, le facciate dei cinema, le vetrine dei negozi a fare la pubblicità. E lo Studio System americano investiva denari, talenti e idee nella creazione di questi prodotti. Dovevano invogliare la gente a spendere i centesimi per comprare il biglietto e ci riuscivano, perché suscitavano meraviglie da sindrome di Stendhal. Ma erano opere d’arte di carta: terminata la loro funzione, valevano solo per la cellulosa che se ne poteva ricavare per riciclarli. Gli esercenti dei cinema li affittavano e li dovevano restituire alla produzione, il loro destino era il macero. Così ne sono svaniti nel nulla a migliaia di tonnellate. Solo pochi folli, malati di collezionismo, cominciarono a stiparli in case e magazzini: oggi valgono molti denari. Uno di questi cinefili, Ira M. Resnick, grande fotografo, figlio di immigrati est-europei che parlavano yiddish, per anni ha girato il mondo e i mercatini delle pulci. E ha allestito una delle più belle collezioni, riprodotta ora in un bellissimo libro in uscita da Jaca Book, Hollywood. Manifesti del cinema nell’età dell’oro. La prefazione è di Martin Scorsese, altro tarlato dal vizio del collezionismo. Come racconta Scorsese il manifesto era l’anima del film, ne incarnava spirito e fascino, ma era anche qualcosa di fondamentalmente diverso. Viveva di una vita sua propria. Rendeva la star ancora più star, nella sua studiata fissità. Il manifesto di Gilda, uno dei più ricercati dai collezionisti, lo rappresenta bene. In sala, gli spettatori avrebbero visto Rita Hayworth parlare, ancheggiare, baciare, struggersi, come una creatura umana, seppur divina. Là sulla carta, immobile e muta, era invece un’opera d’arte, un monumento alla celebrità di se stessa. E’ in piedi, con un aderente vestito di raso tra il blu e il verde, sguardo sdegnato verso il resto del mondo, e sigaretta accesa (oggi questo indispensabile strumento del divismo verrebbe cancellato dalla correttezza salutistica). Sulla testa si inarca la scritta «Non c’è mai stata una donna come Gilda!». Sui muri si fondava gran parte del fascino femminile. Pittori e disegnatori che avrebbero ambito le vie dell’arte, e mai riuscirono a imboccarle, studiavano le dive dal vero o in fotografia per riprodurle come in sedute d’accademia. Louise Brooks, nel Diario di una donna perduta - è il 1929, anno di Depressione - mostra un’ardita mezzaluna di capezzoli dalla scollatura del vestito; Gloria Swanson offre gran parte della schiena nuda in Her husband’s trademark (1922); in Quarantaduesima strada (1933) c’è solo una prospettiva di gambe femminili, che si ammirano impudicamente dal basso; Carole Lombard, nella Bisbetica innamorata (1936), affascina per quel misterioso occhio nero, frutto di chissà quale violenza amorosa. Le ragazze di Ziegfeld Follies (1945), dipinte come pin up, sono l’omaggio alle nuove ragazze americane del dopoguerra. Lana Turner nel Postino suona sempre due volte (1946) s’abbandona tra le braccia di John Garfield con la bocca schiusa, e la pubblicità dice: «Per queste labbra... un uomo può commettere qualsiasi cosa... anche un omicidio!». Barbara Stanwick nell’Amaro tè del generale Yen (1933) è riversa con la testa all’indietro verso l’osservatore, come se anche lui potesse averla. Stesso discorso vale per il fascino maschile. Rodolfo Valentino fissa il nulla col suo sguardo miope. Chaplin sembra tremare impassibile nel freddo della Febbre dell’oro. Humphrey Bogart sfoggia una faccia da duro ancora più impietrita sui cartelloni, Erroll Flynn baffetti guasconi e avventurosi. James Dean con il cappello da cowboy nel Gigante è l’icona d’un modo di vivere e vestirsi, come Marlon Brando con il giubbotto di pelle nel Selvaggio. I manifesti non stuzzicavano solo l’amore. Le manone di King Kong o l’artiglio verdastro che esce da un sipario per ghermire Louise Brooks in The Canary Murder Case (1929), incutevano paure primordiali, al pari dell’occhio rapace di Bela Lugosi-Dracula, fisso malintenzionatamente sul collo di una fanciulla. I volti dei fratelli Marx erano un inno alla stralunata follia. La diligenza che scivola dall’alto verso il basso sulle grandi lettere del titolo di Ombre rosse istigava l’idea della velocità, della corsa, della fuga dagli indiani cattivi. Altre pubblicità insufflavano nella cultura popolare suggestioni artistiche più profonde, come Aurora di Murnau che ricorda Munch, e Metropolis di Lang, un fosco futurismo. Nell’età dell’oro di Hollywood i manifesti raccontavano con la libertà della fantasia la vita come avrebbe potuto essere nei sogni. Erano il colore delle metropoli. Nel Segreto di Nora Moran (1933), Zita Johann se ne sta accoccolata in sottoveste trasparente per una delle immagini più osé dell’anteguerra. Poi arrivarono i codici di censura. E disegnare corpi giganti così non fu più possibile. Né parlar bene dei comunisti. Eppure la grafica costruttivista per l’Ottobre di Eisenstein rendeva affascinante nelle bacheche dei cinema persino la rivoluzione sovietica.