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 2010  settembre 11 Sabato calendario

Noi tutti, Viceré del nichilismo - Chi volesse farsi un’idea veloce ma sicura, non dico della grandezza di Federico De Roberto ancora incredibilmente misconosciuta, ma della qualità implicitamente politica - d’una politica non ingaggiata, «trascendentale» come suggerirebbe Luigi Russo - della sua narrativa migliore, dovrebbe leggersi subito La paura, una delle novelle più belle del Novecento non solo italiano, pubblicata nel 1921, che, sull’insensatezza da mattatoio della guerra, sulla sua umanità sconciata in trincea, e terrorizzata sotto il cieco fuoco d’un nemico sconosciuto, scrive pagine di tensione assoluta e di soffocata, energica, protesta

Noi tutti, Viceré del nichilismo - Chi volesse farsi un’idea veloce ma sicura, non dico della grandezza di Federico De Roberto ancora incredibilmente misconosciuta, ma della qualità implicitamente politica - d’una politica non ingaggiata, «trascendentale» come suggerirebbe Luigi Russo - della sua narrativa migliore, dovrebbe leggersi subito La paura, una delle novelle più belle del Novecento non solo italiano, pubblicata nel 1921, che, sull’insensatezza da mattatoio della guerra, sulla sua umanità sconciata in trincea, e terrorizzata sotto il cieco fuoco d’un nemico sconosciuto, scrive pagine di tensione assoluta e di soffocata, energica, protesta. Nel 1921, il galantuomo conservatore e patriota De Roberto è, nell’opera (quasi a contestazione, si direbbe, della sua biografia), istintivamente e sarcasticamente pacifista, irriducibilmente disfattista, così come, nel 1894, quando pubblica per l’editore milanese Galli I Viceré, era stato antirisorgimentale e antiitaliano. Avrebbe voluto scrivere, come confessava nel 1891 a Ferdinando Di Giorgi, un romanzo sul «decadimento fisico e morale di una stirpe esausta»: ha scritto invece, sugli italiani di ieri, di oggi, e purtroppo anche di domani, il libro decisivo e irrinunciabile. Quegli italiani voraci e euforici - tanti, troppi - che hanno voluto fare uno stemma araldico del motto irridente e irresponsabile d’un rampollo della nobilissima e rapace famiglia degli Uzeda, protagonista del romanzo, ritratta nel passaggio cruciale dai Borboni ai Savoia, il quale dichiarava baldanzoso: «L’Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri». Molti decenni prima che la formula fosse storiograficamente pronunciata, De Roberto diagnosticava, come nessun altro mai, il familismo amorale e se ne serviva come la chiave privilegiata per accedere alla storia della nuova Italia, la nazione in cui la famiglia, quale cellula cancerosa, avrebbe portato in metastasi l’intero corpo sociale. Un Paese in cui negli anni a venire, proprio le razze esauste e degenerate - per continuare a usare il lessico derobertiano - sarebbero state le protagoniste, con strana e mortifera vitalità, della sua messa al sacco. Il Gattopardo, seppure notevole romanzo, al suo confronto, con quei tardivi riscontri di trasformismo, fa quasi sorridere. Basterebbe questo - la sua qualità implicitamente politica appunto, la sua disperata lucidità antropologica - a fare dei Viceré un capolavoro assoluto. Ma c’è di più: molto di più. Il romanzo - lo ripeto -, con la sua mole di documenti a lungo compulsati, e per quel suo «ingegno prosaico, curioso di psicologia e di sociologia, ma incapace di poetici abbandoni», che tanto infastidiva il Croce, vive incontestabilmente un rapporto polemico col suo tempo e con la società che esso esprime. Epperò: è difficile non cogliere, in quella con un mondo storicamente determinato, una più articolata e risoluta polemica antimondana, il rifiuto del mondo in quanto tale, perenne valle di lacrime. In tale prospettiva, il sontuoso e inquietante funerale che apre il romanzo, quello della vecchia e autoritaria principessa Teresa, madre di Giacomo e nonna di Consalvo, unica proprietaria del patrimonio degli Uzeda, può valere davvero come il correlativo oggettivo d’un destino incombente e atroce. Pensateci bene: tutti i figli e cognati di Teresa, che poi s’avvicenderanno sul campo della narrazione - e sottolineo tutti - sembrano perfidamente strutturati per l’infelicità. La maggior parte dei personaggi - secondo leggi genetiche che sembrano volute da un Dio perfido e vendicativo - conoscerà un futuro irreversibile di devastazione psichica e biologica: quand’anche la famiglia storicamente vince e trionfa, i singoli perdono tutti la partita con la vita, e irrimediabilmente. De Roberto, ovviamente, ha alle spalle Verga: la barca carica di lupini che affonda all’inizio dei Malavoglia, provocando la rovina della famiglia, si chiama significativamente «Provvidenza». Questo per dire che la liquidazione del (presunto) provvidenzialismo manzoniano resta di sicuro per De Roberto all’ordine del giorno, ma anche che il romanzo storico gli diventa, per impiegare la suggestiva definizione di Vittorio Spinazzola, «antistorico»: di modo che la Storia, celebrata da Manzoni, possa finire, appunto, sotto processo e condannata senza scampo. Non è per niente un caso se, nel 1898, De Roberto pubblica un importante saggio su Leopardi. Come dire: dalla polemica politica e sociale alla condanna metafisica. Credo lo si possa affermare: nei Viceré, la vita è, leopardianamente, tutto ciò che abbiamo, ma anche tutto quello che dobbiamo patire. Né c’è bisogno di spalancarli, I Viceré, su L’Imperio (pubblicato incompiuto e postumo nel 1929), per sentirvi pulsare un cuore di sconfortato nichilismo. Torna ancora utile il confronto col Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: se è vero che, a paragone dell’euforica e concitata resa al nulla degli Uzeda, l’elegante disincanto del principe di Salina risulta, alla fine, davvero consolatorio.