FRANCESCO SEMPRINI, La Stampa 11/9/2010, pagina 4, 11 settembre 2010
Il mea culpa dei media Usa - Una bomba a orologeria innescata dalle cannoniere mediatiche o un evento - quel falò del Corano annunciato e smentito a ripetizione dal reverendo Jones - al quale giornali, televisioni e Internet erano chiamati a dare spazio per dovere di cronaca? Con il pericolo (quasi) scampato del rogo, per la stampa statunitense è tempo di fare un parziale mea culpa per non aver inquadrato la vicenda nella giusta dimensione
Il mea culpa dei media Usa - Una bomba a orologeria innescata dalle cannoniere mediatiche o un evento - quel falò del Corano annunciato e smentito a ripetizione dal reverendo Jones - al quale giornali, televisioni e Internet erano chiamati a dare spazio per dovere di cronaca? Con il pericolo (quasi) scampato del rogo, per la stampa statunitense è tempo di fare un parziale mea culpa per non aver inquadrato la vicenda nella giusta dimensione. Altri avevano già deciso di autocensurarsi dopo aver fatto, involontariamente, da cassa di risonanza alla follia del pastore dal linguaggio e dai propositi incendiari. Oscurare non è la parola che massmediologi ed esperti di comunicazione vogliono sentire. Sostengono che «ignorare l’evento non era un’opzione praticabile». Eppure ancor prima che Jones rinunciasse a dar fuoco al Corano, il dibattito si era concentrato sull’opportunità di diffondere o meno le immagini del rogo per il rischio di innescare reazioni violente in tutto il mondo in coincidenza con l’anniversario dell’11 settembre. L’Associated Press è stata tra i primi grandi media a optare per la strada dell’oscuramento. Una posizione condivisa dalla Fox News di Rupert Murdoch che aveva espressamente detto di non voler coprire l’evento. Più morbida è stata la posizione di Cbs che annunciava di «seguire la storia mettendola nel suo contesto, come per qualsiasi notizia». Abc invece si era riservata il diritto di «analizzare le immagini prima di decidere se mandarle in onda o meno». Ma quanta «colpa» ha la stampa nella creazione del fenomeno Jones? Pure l’opinione pubblica se lo chiede. Il primo annuncio del pastore, a metà luglio, aveva creato poco clamore. Poi lentamente fra telecamere e taccuini dispiegati davanti alla congregazione di Gainesville anche l’attenzione è salita. Nell’ultima settimana dopo 150 interviste in meno di due mesi, il volto di Jones e i suoi propositi incendiari erano la notizia di apertura di tutti i media. Nulla a che vedere con quello che accadde due anni fa a Topeka, in Kansas, quando un pastore altrettanto estremista, Fred Phelps bruciò un Corano in piazza e nessuno se ne accorse. «Come siamo arrivati a questo punto?», si chiede Howard Kurtz sul Washington Post. «Perché il mondo ha bisogno di seguire le buffonate di uno sconosciuto mangiafuoco di libri della Florida? Certo alcuni diranno che è dovere coprire la vicenda ma i nostri megafoni mediatici messi assieme l’hanno fatta diventare una storia di valenza internazionale. Qui non si tratta di coprire la condanna al carcere di Lindsay Lohan, questa è diventata una polveriera mediatica». Gli fa eco Ian Gurvitz di Huffington Post, secondo cui «la cultura moderna, se così è possibile chiamarla, è di creare celebrità senza alcun talento e il fatto che i media li trattino come personaggi importanti non fa altro che alimentare la loro fama». E questo va bene, afferma Gurvitz, «o almeno è tollerabile per il mondo dello spettacolo, ma non quando ci addentriamo nella vita reale». Di parere opposto è Kevin Lerner storico del giornalismo il quale sostiene che nell’era della democrazia dell’informazione «ignorare intenzionalmente le parole del pastore Terry Jones non era un’opzione praticabile perché non rispondeva allo stesso principio democratico dell’informazione». Anche perché spiega Hisham Melhem, il capo dell’ufficio di Washington di Al-Arabiya, «è del tutto irrilevante se i principali media coprono o meno l’evento, dal momento che anche una sola immagine catturata con un telefonino e messa su YouTube avrebbe potuto avere conseguenze devastanti». «E quindi - sostiene - meglio che la vicenda sia trattata da professionisti dell’informazione». Il vero dilemma allora è come si sarebbe dovuta seguire la storia del pastore Jones? Stephen Burgard, autore del best seller «Fede, Politica e Stampa in tempi poco sicuri», dice: «Lungi dal voler ignorare storie del genere dovremmo capire meglio come trattare fenomeni simili». Un’indicazione arriva da Bill Keller, direttore del New York Times il quale in un messaggio ai suoi giornalisti spiega che il Times «non ha politiche in materia di trattamento e pubblicazione di notizie che potrebbero offendere qualcuno - anche perché le potenziali offese sono troppo numerose. - Ma in ogni caso cerchiamo di astenerci dall’amplificare comportamenti che possano causare offese di vasta portata, a meno che non esistano propositi editoriali precisi e ponderati».