Antonio Scurati, La Stampa 11/9/2010, pagina 1, 11 settembre 2010
Bebè griffati - Lo sfruttamento della prima infanzia a scopi commerciali è indubbiamente l’ultimo grido della moda
Bebè griffati - Lo sfruttamento della prima infanzia a scopi commerciali è indubbiamente l’ultimo grido della moda. Dopo aver ampiamente colonizzato e spianato i territori un tempo impervi dell’adolescenza, i signori del marketing applicato alle stagioni della vita stanno ora marciando a tappe forzate e a ranghi serrati verso le pianure indifese della tenera età. Un altro tabù, forse l’ultimo, è caduto: i bambini vengono platealmente dichiarati segmento merceologico privilegiato. La caccia commerciale al bebè è cominciata. Per rendersene conto è sufficiente sfogliare i magazine allegati ai grandi quotidiani nazionali della prima settimana di settembre. Si noterà che una buona metà delle pagine pubblicitarie sono state acquistate da linee di abbigliamento per bambini. Le nuove collezioni autunno-inverno per mocciosi campeggiano a tutta pagina e quasi in ogni pagina. Evidentemente, il ritorno della famiglia italiana dalle spiagge, la riapertura delle scuole, significa innanzitutto un forte aumento della spesa legata ai beni voluttuari. Dopo le vacanze, il superfluo. Allegre economie domestiche di un Paese che figura agli ultimi posti in Europa per spesa delle famiglie per l’educazione e l’istruzione (lo stesso vale per la spesa pubblica). La scuola riapre ma ciò che pare starci a cuore è il poterla usare per improprie sfilate di moda. A contendere il primato alle pubblicità di abbigliamento per bambini resistono soltanto quelle di abbigliamento intimo. Uomini e donne (ma soprattutto donne) esibiti in seminudità procaci, provocanti, sovraesposte e sovrailluminate. I bambini vestiti e gli adulti svestiti. Questa, insomma, pare essere l’ultima frontiera dell’ormai ben noto ribaltamento di ruoli tra età adulta e infantile. Gli adulti infantilizzati nell’impudicizia svergognata della nudità infantile e i bambini adultizzati in posa e pratiche da fashion victim. Questo turba. Non il fatto che esistano da sempre aziende specializzate in prodotti e abbigliamento specifico per i bambini - aziende che spesso, nelle loro prestazioni migliori, arrivano perfino a supplire in modo virtuoso alle carenze dei servizi pubblici - ma il fatto che quasi tutti gli spazi pubblicitari siano stati acquistati da marchi di moda per adulti che lanciano la loro linea infantile. I bambini vi figurano come replicanti in miniatura delle pose stereotipate dell’immaginario adulto: c’è il bel tenebroso con il capo chino e le mani in tasca, la microsignora chic tutta plissettata, la vamp in erba carica di mascara e di ammiccamenti sessuali. Insomma, copie di copie, caricature di caricature. I bambini vengono così risucchiati in una logica mondana che fino a ieri si riteneva tipica dell’età adulta, prerogativa esclusiva del lussureggiante cervello dell’ominide di grossa taglia, tanto sviluppato e sovradimensionato da sapersi elevare a raffinatissimi sistemi di significazione del corpo, fino al punto di ricadere poi nel totale nonsense. Questa retrodatazione di caratteri adulti, caratteri tardivi, alle origini infantili dell’avventura umana è resa particolarmente evidente dal procedimento della griffatura. La logica illogica della griffe viene anticipata addirittura ai primi mesi di vita in una sorta di evoluzione regressiva contro natura che trasforma il corpo imberbe del bebè, nudo per sua vocazione, spoglio di qualsiasi determinazione culturale che non sia l’universale appartenenza al genere umano, in un corpo di lusso. C’è, in particolare, una campagna pubblicitaria che si spinge fino alle estreme conseguenze di questa inversione. Una ben nota coppia di stilisti che ha fatto della macroscopica ostensione autoreferenziale della griffe uno dei motivi della propria fortuna, ora applica la sua strategia vincente alla prima infanzia. Per vendere la loro merce, fanno fotografare due bebè camuffati da adulti modaioli. Avranno a stento un anno di età, biondi con gli occhi azzurri, uno di faccia e l’altro di schiena, entrambi tappezzati in vari punti del corpo (suola delle scarpe compresa) dalla griffe riprodotta a caratteri cubitali. Il bambino sulla destra, ignaro dell’uso che stanno facendo di lui, rivolge all’obiettivo del fotografo la sua testa grande, la sua fronte prominente, il naso piccolo, gli occhi enormi e infossati, le guance paffute e arrotondate, la pelle morbida e calda, i capelli fini. Tutte le caratteristiche morfologiche predisposte dalla biologia per suscitare trasporto istintivo, per innescare nei genitori programmi genetici di protezione e cura. E invece adesso innescano protocolli di sfruttamento commerciale, servono ai genitori come superfici di proiezione estetica di precari processi d’identificazione attraverso i cosiddetti stili di consumo. Sì, perché così si spiega lo sconcerto che ci coglie davanti a questo genere di pubblicità. Diranno gli psicologi dell’età evolutiva quali conseguenze potrà avere sullo sviluppo di un bambino il suo precoce ingresso nella logica della moda e del consumo, dirà il futuro quali conseguenze avrà sulla società una generazione di adulti griffati fin dalla prima infanzia. Ma una cosa è certa fin da ora: i genitori a cui questo genere di pubblicità si rivolge tradiscono un’inquietante concezione del proprio ruolo e dei propri figli. Il bebè griffato rispecchia l’idea di un figlio come orpello. Qualcosa d’inessenziale, di tanto tanto carino, un sovrappiù che giunge a decorare le nostre vite scialbe quando l’età avanza, la carriera ristagna, la noia dei weekend al mare o in montagna incalza e la naturale amarezza che sale dalle cose condisce le nostre pietanze. Un pupazzo di carne e sangue a cui appiccicare le nostre griffe preferite. Un figlio come bene voluttuario, tutto sommato.