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 2010  settembre 16 Giovedì calendario

FIAT, CACCIA AI NUOVI MERCATI


La gestione Marchionne del gruppo Fiat è perfettamente sintetizzata dall’andamento del titolo in Borsa, confrontato con un indice rappresentativo delle principali società concorrenti. Dal giorno in cui Sergio Marchionne è amministratore delegato (1 giugno 2004), le azioni ordinarie Fiat si sono comportate complessivamente meglio di un indice dei concorrenti (che include le 40 maggiori società per capitalizzazione nel mondo che operano nei settori auto, autocarri, componenti, macchine agricole e movimento terra). Ma per chi ha investito in Fiat, è stato un viaggio sulle montagne russe (vedi il grafico qui sotto).
Una volatilità che è anche il risultato delle straordinarie capacità di Marchionne di negoziare e creare grandi aspettative. Capacità che, insieme all’immagine di very powerful chief excutive che ha saputo coltivarsi (e che gli investitori adorano) sono le qualità del perfetto "risanatore". Tempo fa avevo definito la "sua" Fiat "un fondo di private equity specializzato in ristrutturazioni di società in dissesto": era un complimento. In tre mosse - l’opzione Gm, il convertendo e l’uscita da Italenergia - Marchionne ha saputo negoziare la rapida uscita di Fiat dal baratro finanziario; ha recuperato redditività puntando su ciò che Fiat aveva sempre fatto meglio (utilitarie, autocarri leggeri, macchine agricole); e ha fatto crescere le aspettative: un cocktail che ha messo le ali al titolo, quadruplicato in tre anni. Ma non si può crescere solo alimentando aspettative e, complice la crisi, il titolo è crollato alla stessa velocità con cui era salito.
Altro giro sull’ottovolante. Con una nuova, straordinaria, negoziazione Marchionne ha ottenuto il potenziale controllo di Chrysler senza investire un soldo, facendo pagare la ristrutturazione a dipendenti e contribuenti; nuove attese per il rilancio di un marchio moribondo e per le futuribili sinergie transoceaniche; e nuova accelerazione del titolo in Borsa, aiutato anche dalla scissione dell’auto, che valorizza "l’opzione Chrysler" per gli azionisti Fiat (che, come ogni opzione, ha un costo certo e contenuto, ma possibilità di guadagni illimitati), e apre lo scenario di future possibili operazioni straordinarie, gradito al mercato.
Ma se si vuole scendere dall’ottovolante, da qui in avanti il valore della Fiat dovrà essere sostenuto da crescita stabile di fatturato, margini e utili. E per farlo, il gruppo deve ancora superare le debolezze di sempre, non più critiche, ma ancora irrisolte. Proprio questo si propone il piano per il 2014, presentato dal gruppo.
Redditività e produttività rimangono tendenzialmente al di sotto della media di settore; e distanti da quelli dei leader nei mercati in cui la Fiat opera. Negli anni 2006-2010, quelli del rilancio della Fiat, il suo margine operativo in percentuale sul fatturato è stato in media di 3,7 per cento, rispetto al 4,9 per cento dei concorrenti (indice delle 40 maggiori società); e il fatturato medio per dipendente di Fiat (292mila euro), inferiore del 16 per cento.
Il piano punta a moltiplicare i margini: da 1,4 per cento stimato per quest’anno, a 4,7 per cento nel 2014 per le auto (Ferrari esclusa); dal 3 al 10 per cento per gli autocarri Iveco; dal 5 al 10 per cento per i macchinari di Cnh. Livelli mai raggiunti da Fiat, e che la porrebbero ai vertici della redditività in ogni settore. I piani devono scaldare gli animi, quindi peccano di ottimismo. Ma forse qui si è esagerato.
Marchionne intende raggiungere gli obiettivi annunciati operando prevalentemente su due livelli. Il primo è il pieno utilizzo della capacità produttiva installata, e cioè impianti in funzione a ciclo continuo, con tre turni, per 283 giorni l’anno. In questo modo si abbattono i costi fissi di investimento per ogni unità prodotta, migliorando margini e produttività, senza ridurre l’occupazione; e senza bisogno di nuovi investimenti. Per esempio, l’utilizzo della capacità installata in Europa per gli autocarri dovrebbe passare dal 49 al 88 per cento; Powertrain dovrebbe aumentare la capacità annua di 800 mila motori per veicoli, ma produrne 1,5 milioni in più; e gli stabilimenti di Mirafiori, Cassino e Melfi passare da un grado di utilizzo di 64 per cento, 24 per cento e 65 per cento rispettivamente, a una media del 94 per cento. Non è una questione di costo, ma di organizzazione del lavoro. In Italia, i problemi di Fiat sul mercato del lavoro sono deflagrati all’improvviso, ma era tutto scritto a chiare lettere nel piano (espansione in Serbia compresa), da tempo di pubblico dominio. Forse valeva la pena preparare e organizzare meglio il cambiamento. Inevitabile, visto che in Italia Fiat ha il 43 per cento dei dipendenti (e un terzo dei siti produttivi), ma fattura il 25 per cento. Parlare di delocalizzazione è fuori luogo. Vero l’opposto: il 40 per cento di quanto viene prodotto oggi in Italia (65 per cento nel piano) viene esportato. Se vuole continuare, deve farlo con la produttività della concorrenza estera.
Ma non basta produrre di più: bisogna anche vendere di più, e a prezzi unitari più elevati. Qui il piano prevede di agire sulle antiche debolezze di Fiat: meno utilitarie e più veicoli dei segmenti superiori; più autocarri pesanti; forte aumento della quote di mercato nelle aree a maggior crescita (Asia e Medio Oriente); salto dimensionale nelle macchine movimento terra; guadagno di efficienza e qualità nella componentistica.
Anche i dubbi sono quelli di sempre. A eccezione delle macchine agricole, Fiat parte da una posizione di mercato debole in ogni segmento: improbabile che riesca a fare il salto di qualità in tutti, contemporaneamente. Nell’auto, ancora per un po’ Chrysler farà storia a sé. Auto, autocarri e componenti sono ancora molto concentrati in un’Europa a bassa crescita, con un eccesso di capacità produttiva che la crisi non ha eliminato; e per questo la concorrenza sarà ancora più agguerrita. E l’espansione in Asia è il miraggio di tutti. Senza contare che il piano ipotizza un rapido ritorno della crescita mondiale ai ritmi dei migliori anni passati: una prospettiva resa improbabile dall’onere dell’aggiustamento delle finanze pubbliche.
Fiat ha superato la crisi del debito; ma la sua struttura finanziaria resta debole. Nella prima parte dell’anno, la gestione operativa ha prodotto cassa sufficiente a finanziare gli investimenti: data la crisi, un ottimo risultato. Ma deve tornare presto a generare liquidità in eccesso se vuole acquisire la flessibilità finanziaria necessaria per crescere senza rischi. Ci sono infatti 17,4 miliardi di debiti netti. La società enfatizza sempre i debiti "industriali" (3,7 miliardi), ma per bilancio e rischio di insolvenza contano anche quelli emessi per finanziare il credito agli acquirenti (15 miliardi, di cui 8 cartolarizzati), indispensabile per sostenere le vendite. Che significa oltre 1 miliardo l’anno di oneri finanziari (nel primo semestre si sono mangiati quasi tutto l’utile). Il declassamento del rating a livello di junk (mentre le principali società del settore nel mondo mantengono il merito creditizio, ad eccezione di Renault, Ford e Peugeot), è un campanello di allarme e un ostacolo in più, che la scissione dell’auto, per quanto vantaggiosa per il titolo, rischia di aggravare: venendo meno i benefici della diversificazione tra settori con margini e ciclicità differenti, si riduce la capacità di indebitamento delle due società separate (vedi la tabella).
A metà del guado, la Fiat si guarda alle spalle e si rallegra per tutta la strada che è riuscita a fare senza affogare. Ma di fronte a sé ha ancora una traversata difficile: aspettative, piani e carisma del capo aiutano, ma non bastano a raggiungere l’altra riva. Per Marchionne è cominciata la fase due, tutta sviluppo prodotti e clienti: meno appariscente della ristrutturazione, ma più decisiva per il futuro di Fiat. Ristrutturare è una cosa (che Marchionne sa fare benissimo); altro è crescere.