Andrea Marcenaro, First n.6 settembre 2010, 6 settembre 2010
AL TEATRO MANCA UN PROTAGONISTA E MAGARI ANCHE UN LANCIAFIAMME
[Intervista a Giorgio Albertazzi]
Settant’anni di teatro. Quando si dice rimanere fedeli alla propria passione.
«La passione di che?».
Del teatro.
«Non avevo alcuna passione per il teatro».
Scusi, ho sbagliato persona?
«Mi chiamo Giorgio Albertazzi, nato a San Martino a Mensola, tra Firenze e Fiesole, il 20 agosto 1923».
Lo stesso che cercavo io. E non ha nessuna passione per il teatro.
«Non mi pare».
Lei è lo stesso Albertazzi che, diciassettenne, recitò a Settignano, sulle colline di Firenze?
«C’è ancora “la Cappuccina”, a Settignano, la villa di Gabriele D’Annunzio. Quanto è bella, la mia Settignano, col teatrino del Cinquecento».
Raccontano i ritagli di giornale che il suo esordio sul palcoscenico avvenne lì.
«Racconterranno anche il perché, allora».
Lo dica con le sue parole.
«Lei faceva già l’università, era più grande, io ancora il liceo, ci incontravamo sull’autobus e la guardavo, forse anche lei mi guardava, dato che un giorno mi domandò perché non andavamo a recitare insieme a Settignano».
Acconsentì, recitò L’allegro principe di Athos Ori e scoprì, da quel momento, quella passione per la quale appunto, con questo caldo, mi è toccato di venire fino a Verona per intervistarla.
«Passione per lei, non per il teatro. Era di una bellezza rara, se mi avesse chiesto di andare a fare una rapina l’avrei seguita. Direbbe forse, per questo, che avevo una particolare predisposizione per le rapine?».
Per le donne.
«Ecco, già meglio».
Narciso lo era già parecchio. Al punto le piaceva, l’applauso, da fare il saputello su D’Annunzio. In seconda media, vero?
«La professoressa di italiano e latino era bruttarella, biondastra, acida, le pigliò il ghiribizzo di saltare D’Annunzio: “approfondiamo Leopardi”, comunicò alla classe. “Epperché?”, ebbi l’ardire di domandare. “Senti senti”, reagì quella, “l’Albertazzi conosce il D’Annunzio. Perché allora non viene qui alla cattedra a recitarci qualcosa? Vieni su, bellino, svelto, vieni, vieni”. Quella stronza».
Non l’avesse mai fatto. Non vedeva l’ora, lei, di recitare.
«La sera fiesolana».
E la classe si spellò le mani.
«Devo ammettere».
E lei godette molto.
«Diciamo pure».
E avvertì a quel punto il sacro fuoco.
«E dagliela!».
Senta, veniamoci incontro, non sarà passione, ma qualcosa sarà pure, se esordisce sul palcoscenico tra la prima e la seconda guerra mondiale, trionfa lungo l’intera guerra fredda, stiamo ormai arrivando alle soglie della terza guerra planetaria e lei ancora non dà cenni di voler chiudere il sipario.
«Ecco, qualcosa sì, qualcosa. Un senso di libertà, forse, il privilegio di poter fare ciò che amo di più».
Recitare.
«No, scrivere».
Me lo fa apposta.
«Assolutamente».
Urge aggiornare Wikipedia: Giorgio Albertazzi, famoso scrittore nato a…
«Per il teatro amo scrivere, tradurre, comporre testi, ne ho fatti 14, il teatro è un insieme di libertà, un modo per conoscere, imparare, vedere persone».
Fare riunioni, stabilire budget, gestire gruppi, sgomitare tra clan.
«Sono aspetti che non amo, non sono mondano, ho esordito a Settignano, ricorda?».
Resta tuttavia un grande boss del teatro italiano.
«Boss?».
Credo.
«Io?».
Bé.
«Viene da ridere. Quanto al potere economico, domandi in giro. Sono troppo in conflitto col modo di gestire il denaro pubblico, per essere un boss. Poi, non nego di godere di una qualche autorevolezza dal punto di vista artistico. Sono abbastanza conosciuto, se è questo che intende. Ma un boss di questo teatraccio, via, nemmeno per scherzo».
Prego?
«Teatraccio, sì, il teatraccio italiano. Tutto così “ben fatto”, così composto, insulso, ordinatino, definito e prevedibile».
Salvo il suo, devo credere.
«Questo sì».
Tutto il resto no.
«Al 90 per cento no, diciamo. Chiudendo un occhio, all’85».
Per esempio?
«Tutto quello che passerà qui a Verona dopo di me, per esempio. Non vale la pena di nominare qualcuno, prenda un lavoro a caso e avrà novanta probabilità su cento di aver pescato una porcheria. Sarà pure avvilente, ma così è».
Se la sente il ministro Bondi, altro che tagli, vi cita per danni e chiede lui dei soldi a voi.
«Non m’interessa un accidente dei tagli, esistono ragioni più che sacrosante per segare parecchio. Mi interesserebbe vedere cosa non si taglia, se mai, ma ribadendo: il teatro che si sta facendo ora andrebbe estirpato praticamente da cima a fondo, quasi al completo, non produciamo niente di interessante».
I Teatri stabili sono un vanto della cultura italiana. Uno dei rarissimi bastioni contro l’ignoranza che ci sta rimbecillendo.
«Ma va là».
Vogliamo chiudere loro l’ultimo filino di ossigeno?
«Ci vorrebbe il lanciafiamme».
Bruciare gli Stabili.
«Più o meno».
Tirare un frego blu su quel poco che resta.
«Tirarlo su degli organismi di potere centralizzati che gestiscono con costi intollerabili il pubblico denaro, perché no?».
Speriamo che non le diano retta.
«Di questo può star sicuro».
Ma a questo punto deve dire il teatro che vorrebbe lei.
«Personalmente, sono convinto che il quadro finito sia roba morta. Il teatro senza grinze è morto, quello vero è vitalità, è lotta, addirittura stupro. Sono l’imperfezione e la sua armonia, che creano il bello».
Non ho capito niente.
«Cos’è il teatro? Un mestiere, un media, o è arte? Il problema è tutto lì. Io penso che sia arte. Ma se lo è, dev’essere frutto prima di tutto del talento, per quanto soccorso dalle capacità artigiane e dal mestiere».
Deve fare uno sforzo supplementare di spiegazione.
«La prendo da un’altra parte. Sui palcoscenici italiani non c’è più il protagonista. Manca, è assente, scomparso. Lei sa il perché?».
Io no.
«Perché in tutti questi anni è stato sostituito dal regista. Lui è stato il vero personaggio, il protagonista unico. Sa cosa succede, in questo modo? Succede che, se il regista occupa il centro della scena, quello che ne risulta è un prodotto pallido, inesistente».
Dipenderà dalla qualità del regista, immagino; ce ne sono di bravi.
«E chi lo nega? Il problema non è se sia bravo o no, è il suo protagonismo, il problema, il fatto che il vero mattatore dello spettacolo sia diventato lui».
Strehler, Ronconi, Zeffirelli, grandi personaggi, questo è vero. Loro sono le star. Ma da quando in qua l’essere bravi rappresenta un limite?
«Guardi, in teatro, più la regia è omaggiata, o meglio, più il regista diventa star, e peggio è. Sulla ribalta non va il regista, e allora manca l’anima, il leader della rappresentazione. Gli spettatori lo vedono».
Tanti buoni attori possono sopperire portando sulla scena una buona squadra.
«Ce ne vorrebbe una così potente che non esiste, non può esserci. Uno dei motivi della morte del teatro italiano è questo».
Che c’è carenza di Maradona.
«Non sto parlando di un virtuoso, o di una foca. Non ha capito niente».
L’avevo avvisata.
«Il protagonista è un’altra cosa, è quello che, sapendo raccontare magnificamente la propria storia, si porta sulle spalle tutto il resto».
Come il leader nella politica.
«All’incirca. E come dovunque. In questo paese sopravvive il terrore del protagonismo e si tenta in ogni modo di surrogarlo con la retorica della buona squadra, del lavoro collettivo, è una specie di marchingegno fasullo che mostra subito la corda. La regia mattatrice e la morte del grandissimo attore non sono altro che questo. Vanno insieme. Infatti, il nostro teatro è morto».
Critica il protagonismo dei grandi registi, poi per sé non sceglie mica Pincopallo, però, sceglie Ronconi.
«Alt, io non scelgo proprio un bel niente. Vengono loro da me: perché non facciamo Amleto, perché non fai questo, perché non fai quest’altro? E io faccio».
Pigrizia?
«Non solo, anche».
La pièce che le piace di più?
«Quella che non consumi, che non liquidi, che non si trascina ripetitiva».
Scusi, e lo dice uno che ha portato Memorie di Adriano per 20 anni di seguito in 800 repliche?
«E che lo rifarebbe».
Perché?
«La gente lo vedeva volentieri e faceva molti quattrini. È un bellissimo pezzo sull’essere e no, un tema notevole. Poi, in verità, non si sa perché le cose si fanno così a lungo, soprattutto perché te le chiedano».
I quattrini sembrano comunque un buon motivo.
«Ottimo».
Abbiamo cancellato i teatri stabili, abbiamo cancellato i registi, i grandi attori sono defunti, che facciamo, restiamo sul divano davanti alla tivù?
«Si dovrebbe mettere in piedi una scuola e chiamarla in questo modo: “Scuola di dissuasione dal teatro”».
Giusto, bisogna sempre bastonare il cane che affoga.
«Al contrario».
Cioè?
«Applicare la tecnica dei gesuiti. Li conosce, i gesuiti?».
Ti bastonano, nelle scuole dei gesuiti.
«Appunto. Ti stangano, ti fanno capire che non sai niente. Non trovi porte aperte, se vuoi entrare nella Compagnia di Gesù, “lascia perdere”, ti dicono, “vai a fare il parroco che è meglio”».
Come nei corpi scelti dei marines: «vai nell’esercito, non hai né il fisico né lo spirito, per venire da noi».
«Una scuola di dissuasione dal teatro dove chi viene, anziché essere incoraggiato a farlo, venga maltrattato, tartassato, respinto, dove si mettano in evidenza i suoi difetti e non le sue possibilità, ma le sue impossibilità».
L’università per attori protagonisti.
«Esattamente».
È una sua vecchia idea, vero? Voleva metterla in piedi a Firenze, con Zeffirelli, ma non gliel’hanno ancora lasciata fare.
«Firenze è la città delle faide; non ho perso del tutto la speranza, si vedrà».
Se no?
«A Milano, oppure a Bologna, è un progetto su cui ogni volta si perde troppo tempo a discutere, inutilmente. È un’idea semplice, non c’è da parlarne ancora. Ma credo proprio che alla fine si realizzerà».
Poi, per mandarli dove, i suoi nuovi mattatori?
«Cancellati quegli orrendi stabili, ci vorrebbe un teatro nazionale a Milano e a Roma».
“Bei tempi”, si sente sospirare, “quelli in cui il teatro andava in televisione”.
«Ma che dice? Non si può più fare, sarebbe orribile. La commedia ripresa dal vivo fa venire i brividi, come far passare la cacca per cioccolata. Era un altro teatro, allora, e c’era un’altra tivù. Si facevano 20 giorni di prove, si aggiustava il testo, oggi costerebbe uno sproposito con risultati devastanti».
Lei guarda la tivù?
«Sì».
Le piace?
«Abbastanza. Non mi iscrivo comunque al partito dei demonizzanti».
Prospero nella Tempesta di Shakespeare: sta recitando quella parte per esorcizzare la vecchiaia?
«In Prospero c’è l’elemento geniale del perdente. Uno che è duca, ha potere, è un grande artista, domina la magìa, la maneggia e, mano mano, da tutto questo si libera, scoprendo solo allora la sua forza interiore. È un magnifico personaggio, Prospero».
«Le cosce delle donne sono la prova dell’esistenza di Dio». È sempre di questo avviso?
«Sempre. Identifico in esse la bellezza, l’immortalità, la vitalità e la quiete».
Oddio, la quiete non sempre.
«In effetti».