Guido Olimpio, Corriere della Sera 10/09/2010, 10 settembre 2010
GLI INDIZI IGNORATI DELLA STRAGE CHE COLPI’ L’AMERICA AL CUORE —
La nuova Pearl Harbor americana inizia alle 8.46 dell’11 settembre 2001, quando l’American Airlines 11 si schianta sulla Torre Nord del World Trade Center a New York. Alle 9.03, il volo United 175 centra la Torre Sud. Alle 9.37 è un altro jet dell’American Airlines (volo 175) a precipitare sul Pentagono, a Washington. Infine si disintegra al suolo in Pennsylvania il volo United 93: doveva colpire la capitale. Gli aerei sono stati dirottati da 19 terroristi di Al Qaeda, divisi in quattro nuclei, e poi lanciati sugli obiettivi. Delle 2965 vittime dell’attacco (cifra che include WTC, Pentagono e volo 93) quasi la metà non sono state identificate. Circa 800 hanno un nome grazie al Dna. A nove anni dal massacro vengono ancora ritrovati dei resti: l’ultima volta è avvenuto alla fine di giugno durante lavori di scavo vicino a Ground Zero quando sono emersi 72 «reperti».
Quelli di Al Qaeda hanno appiccato il fuoco e si godono l’incendio. Ogni tanto — e quando possono — lo alimentano con una strage. Oppure sfruttano la «legna» fornita generosamente da altri: l’idea di aprire una moschea a due isolati da Ground Zero, il predicatore folle della Florida e qualsiasi provocazione — vera o presunta — che appaia sulla faccia della Terra. Certo, non è il sollevamento popolare che sognava Bin Laden quando ha lanciato l’attacco all’America, ma è una lunga coda di veleni e violenze sulla quale Al Qaeda vuole mettere il suo marchio. Anche se molti esperti ritengono che Osama sia diventato irrilevante. Quasi volessero privarlo dei «meriti» jihadisti che si è guadagnato spargendo il sangue dei nemici. E si aggiunge, misurando la forza del terrore dal numero di vittime, che i qaedisti sarebbero meno letali.
Questi osservatori possono aver ragione, ma solo in parte. Perché come è accaduto troppo spesso si è fatta partire la «storia» dalla mattina dell’11 settembre 2001, quando i quattro jet sono stati trasformati in missili da crociera per attaccare i simboli della potenza americana. Il cuore finanziario a New York, il Pentagono a Washington.
L’assalto affidato ai «19 martiri» non è l’inizio ma la fine di una lunga marcia iniziata quasi dieci anni prima. E al pari di altre formazioni islamiste, il movimento di Osama è arrivato al grande colpo attraverso molte fasi. Hanno tentato una prima volta nel 1993 — con l’autobomba sotto le Torri — quindi sono tornati ad agire in Medio Oriente con attacchi locali, legati però a bersagli stranieri. Gli attentati ai turisti in Egitto, operazioni in Pakistan e nello Yemen, sostegno agli insorti somali e una bomba in un locale in Sud Africa.
IL MANIFESTO — Osama si è sentito abbastanza forte per dichiarare guerra — nel 1996 — a «ebrei e crociati». Ha anche pubblicato un manifesto dove spiegava quali fossero le sue intenzioni. È stato registrato in modo distratto, non esaminato con il dovuto rigore. Così Bin Laden, raccolte le forze esigue e modellato un network internazionale — sempre molto agile — ha colpito con duplice attentato in Africa (agosto 1998). Due ambasciate americane devastate a Nairobi e Dar Es Salam, centinaia di vittime e il ricorso alla tattica preferita: azione multipla, con kamikaze e veicoli pieni di esplosivo. Finalmente si sono accorti del pericolo che rappresentava ma non hanno avuto abbastanza fegato per eliminare il Califfo.
Nei tre anni seguenti, sotto l’ombrello dei talebani, Osama ha attirato seguaci da tutto il mondo e ha avviato l’operazione del 9/11 usando l’asse Afghanistan-Pakistan quale base di partenza. In centinaia sono andati ad addestrarsi nel santuario. Carne da cannone, uomini spendibili. Solo un numero ristretto di eletti — e tali sono considerati dai loro ammiratori — è stato designato per qualcosa che nessuno aveva mai provato a fare.
LO SCHEMA — Bin Laden ha ripetuto lo schema del terrorismo ad hoc. Gli serviva un capo operativo abile e deciso. E lo ha trovato nell’ambizioso Khaled Sheikh Mohammed, aiutato dal sodale Ramzi Binalshib. Quindi ha individuato un gruppo ristretto di militanti, diventati il suo «A team». A questo punto ha valutato opzioni, tempi, possibilità. Forse non sapremo mai l’esatto numero dei cospiratori ma non crediamo che sia stato troppo ampio. Nuove valutazioni condotte negli Usa ritengono che in quei mesi i veri qaedisti fossero nell’ordine dei 200-300. Il resto era una massa di volontari che a stento sapevano imbracciare un Kalashnikov. Ma non era l’abilità nel tiro che interessava a Bin Laden: la loro vera forza era la completa adesione all’idea di lotta feroce e di sacrificio estremo. Un impegno trasformatosi in uno stato mentale, dove ogni momento dell’esistenza quotidiana è segnato dall’estremismo.
Un intreccio complesso di sentimenti e sensazioni che diventa la molla per i 19 kamikaze. Anche la storia del piano d’attacco dimostra come l’idea venga da lontano. È nel 1996 — o forse un anno prima — che Khaled Sheikh Moham-
med, alias Ksm, presenta a Osama un progetto grandioso: il dirottamento simultaneo di una dozzina di aerei con i quali colpire non solo il World Trade Center ma anche la Casa Bianca, il Congresso e altri obiettivi sensibili. Il capo ascolta, poi boccia la proposta ritenendo che sia inattuabile. L’idea, però, rimane nella testa. Ed è proprio Osama, nella primavera del 1999, a convocare Mohammed a Kandahar (Afghanistan) per affidargli l’organizzazione dell’attacco. Un’investitura accompagnata da consigli/ordini sugli uomini da impiegare. Ksm obbedisce, anche se alcuni dei futuri kamikaze non sembrano adatti. Parlano poco l’inglese, conoscono poco dell’America, dove devono vivere da infiltrati. Si va avanti comunque. Mohammed Atta è designato come capo del commando ed emerge una prima lista di obiettivi indicati sempre da Bin Laden.
L’INTELLIGENCE — Il tutto dovrebbe avvenire nella massima segretezza, con 2-3 capi di Al Qaeda informati, persino Al Zawahiri sarebbe stato tenuto all’oscuro. Invece si verificano diverse fughe di notizie. Alcune, ha sostenuto Ksm, sono da addebitare allo stesso Califfo. Difficile che le voci non siano captate dalle intelligence: emergono segnalazioni nel 1998 — a Bill Clinton — poi nel 2000, quindi a pochi giorni dal massacro. Note riservate dei russi, dei francesi, dell’Fbi, della Cia. Con l’ultimo memo degli 007 portato da Condoleezza Rice al presidente Bush nel suo ranch in Texas. Era il 6 agosto. Informazioni considerate generiche, minacce definite «non specifiche» ma che se analizzate con un occhio più attento avrebbero forse fermato la macchina distruttrice. I responsabili della sicurezza dovevano incrociarle con quanto predicava da un decennio Bin Laden. Ai terroristi jihadisti va riconosciuta una dote: cercano di mantenere quello che promettono. Guai sottovalutarli. Pericoloso sottostimare la loro fantasia criminale, pur se velleitaria. La mancanza di immaginazione dei servizi di sicurezza — come ha sottolineato la Commissione di inchiesta — ha, infatti, permesso ai complottatori di procedere sotto il radar.
I JET — Osama ha fretta, vorrebbe anticipare l’attacco. Ksm si oppone, spiega che i 19 non sono ancora pronti. Dei 4 «piloti» designati — Atta, Al Shehi, Jarrah, Hanjour — solo l’ultimo poteva vantare un background aeronautico: aveva studiato volo dal 1997 al ‘99, quindi aveva frequentato un corso in Arizona nel dicembre 2000, infine si era esercitato sul simulatore del Boeing 737. E malgrado questo training non era apparso troppo in gamba. Ancora minori le esperienze dei suoi complici: appena 40 ore di volo. Dato ben al di sotto delle 1500 ore richieste dalle autorità federali Usa. C’era poi il problema di condurre i jet dirottati sul bersaglio. Un ostacolo superato — per la commissione di inchiesta — usando i GPS. Quello della preparazione dei «piloti» resta uno dei punti oscuri della trama e che verrà sottolineato da molti, compreso il presidente egiziano Mubarak. Ex ufficiale di aviazione, vecchia volpe del Medio Oriente, avanza dei dubbi. A suo giudizio hanno eseguito una manovra troppo complessa per dei principianti.
I risultati, però, sono devastanti. Migliaia di morti, la frattura ideologica, l’odio, la reazione statunitense. Incalzata dall’offensiva alleata, Al Qaeda si rimpicciolisce lasciando il campo ai movimenti regionali. Di nuovo, gli 007 parlano di 100-200 elementi oggi «in servizio». Khaled Sheikh Mohammed, catturato con Binalshib dagli americani, è a Guantanamo dove si è assunto la paternità dell’operazione «dalla A alla Z». Vorrebbe morire sul patibolo e forse è per questo che in un messaggio alla famiglia ha lanciato strani segnali: «Cerco rifugio in lui (Allah, ndr) dal male dentro di noi e dalle nostre cattive azioni». Pentimento? Vedremo.
Osama, invece, è sparito, protetto da complicità, voci incontrollabili (vivo/malato/morto) e da un complicato teatro geografico. Con la sua lunga marcia ha trascinato l’Occidente su un terreno insidioso, ha cambiato la nostra esistenza, ha consumato vite e risorse. Bin Laden non ha vinto, però ci ha costretto a raccogliere la sfida. Non si poteva stare a guardare, serviva una risposta per parare altri colpi, ma evitando di eleggere la lotta ai terroristi quale perno della politica occidentale. Così si è finito per fare il gioco di chi voleva la guerra dei mondi.
Guido Olimpio