MICHELA MARZANO, la Repubblica 10/9/2010, 10 settembre 2010
TROPPI FENOMENI MEDIATICI BASTA CON IL PRÊT-À-PENSER"
Cosa sta succedendo alla Francia? Che fine hanno fatto gli intellettuali? Nel paese di Voltaire, Zola, Sartre e Camus, sono in molti a chiederselo, delusi e frustrati dall´assenza (o dall´invisibilità) di grandi figure. In maggio, un numero speciale della rivista Débat lancia un segnale d´allarme, festeggiando così, non senza una certa inquietudine, i suoi primi trent´anni di vita. In questi ultimi giorni, i libri del finanziere Alain Minc, Une histoire politique des intellectuels, e dell´universitario Yves-Charles Zarka, La destitution des intellectuels, ripropongono il problema e fanno scoppiare la polemica sui giornali. Le Point, Le Figaro Littéraire, il Nouvel Observateur… Tutti si appassionano a questo dibattito che imbarazza le élites francesi. Perché è sempre più difficile trovare un intellettuale di spessore, uno spirito sottile capace di far riflettere i contemporanei e alimentare quel pensiero critico di cui parlava Adorno e di cui tutti noi, in fondo, abbiamo bisogno per evitare di cadere nel conformismo del politicamente corretto?
Ma per rispondere a questo tipo di domande, non ci si dovrebbe limitare a cercare un "capro espiatorio", come fa Zarka, o a dichiarare in modo sprezzante, come fa Minc, che tutti gli intellettuali – a parte forse il suo amico Bernard-Henri Lévy – "pensano in modo sbagliato". Non esiste un solo responsabile per la crisi della cultura francese. È fin troppo facile attribuire la colpa ai soli "giornalisti", colpevoli di occupare la scena e di promuove questo o quel personaggio particolare, spesso scelto per caso o grazie alla rete di conoscenze mondane che sarebbe stato capace di costruirsi. Certo, Zarka non ha torto quando denuncia la "creazione di un intellettuale indipendentemente dalla sua opera". Sono in molti a denunciare la superficialità e la mancanza di spessore teorico dei cosiddetti "intellettuali mediatici", sempre pronti a dire la prima cosa che passa loro per la testa pur di andare in televisione o partecipare ad una trasmissione radiofonica. Quale credibilità può avere chi non si scrive nulla, se non qualche libro di ricette filosofiche sulla felicità o sul senso della vita? Perché si dovrebbe aver fiducia in coloro che – promossi dal milieu parigino e dai media – si pronunciano su qualunque tema, hanno un punto di vista su tutto?
Un intellettuale degno di questo nome, dovrebbe avere il coraggio di "discernere", di capire su quali temi intervenire e su quali invece restare silenzioso, dovrebbe forse rileggere quei bellissimi versi scritti dal nostro Montale: "Non domandarci la formula che mondi possa aprirti". È il problema dei "quick books", quelli scritti in un mese per reagire immediatamente ad un fatto di cronaca o ad un problema politico. Ma è anche il problema delle "belle formule" che piacciono tanto ai filosofi francesi e che, però, non aiutano mai a capire il mondo. Se ogni buon filosofo "è innamorato di concetti", come direbbe Deleuze, non si può pretendere di "inventare" un concetto al mese, senza al tempo stesso ridurre la filosofia ad un mero esercizio retorico. Esattamente come non si può voler difendere "la nuance, la misura e l´equilibrio", come scrive Minc, quando tutti sanno, almeno a Parigi, che il nostro uomo d´affari è il consigliere "segreto" di Nicolas Sarkozy…
Allora Zarka ha senz´altro ragione quando spiega che, nel passato, ciò che caratterizzava un intellettuale era la propria "opera", "un oggetto di riconoscenza pubblica grazie alla sua importanza" che dava all´autore una certa "autorità morale". Ma come dargli ancora credito, quando, per denunciare la "spettacolarizzazione del sapere" pubblica un libro in cui, a parte una raccolta di articoli scritti per alcuni quotidiani, si limita a dare al lettore una quarantina di pagine di invettiva? Non cade lui stesso nella trappola del "prêt-à-penser" che pretende decostruire? E non è tutto. Perché, se a partire dagli anni Settanta si osserva un "capovolgimento del rapporto tra intellettuali e giornalisti", è anche vero che molti universitari, in questi ultimi anni, hanno preferito rinchiudersi nella propria torre di avorio, uscire dalla scena pubblica e discutere tra di loro. Utilizzando un linguaggio sempre meno accessibile alla gente, hanno costruito un mondo in cui solo alcuni eletti hanno accesso. Alcuni di loro, seguendo la moda anglosassone, si sono anche impegnati a fondo per creare un sistema delirante di "valutazione del merito", in base al quale il valore di uno studioso dipenderebbe da quello che ormai si chiama il "fattore h": quante volte i suoi lavori sono "citati" all´interno di alcune riviste "a comitato di lettura". Esiste ormai anche un software sofisticato per calcolare questo "fattore h", il cui nome è già tutto un programma: Publish or Perish. Ecco allora che molti universitari entrano nella folle logica della produttività accademica: i loro curricula vitae sono pieni di centinaia di articoli estremamente tecnici e non sempre interessanti. Più si utilizza un linguaggio difficile, più si è contenti. Anche perché il linguaggio difficile permette tante volte di nascondere la confusione del proprio pensiero. Che resta oggi della lezione del grande Cartesio, che spiegava che una delle finalità della filosofia era la "chiarezza" e la "distinzione" delle idee?
Per poter di nuovo "pensare il mondo" e trovare, talvolta balbettando, le "parole per dirlo" gli intellettuali francesi dovrebbero uscire da questa terribile impasse. Non lasciarsi prendere, come gli eredi dei nouveaux philosophes degli anni Settanta, dalla tentazione di sposare la "logica del prodotto" che, come dice giustamente Zarka, è "derisoria e ridicola, anche se efficace" e avere il coraggio di portare avanti una riflessione seria, anche in assenza delle "telecamere". Ma non cadere nemmeno nella trappola dell´elitismo universitario che, nel nome del sapere, nasconde a mala pena una forma di "disprezzo" del pubblico e dei lettori. In poche parole, ritrovare lo spirito della grandeur francese…