Renato Minore, Il Messaggero 10/9/2010, 10 settembre 2010
AMOS OZ: «ARABI E ISRAELIANI? UN GIORNO CI SARANNO DUE STATI, UNO VICINO ALL’ALTRO»
Mantova - l conflitto tra ebrei e israeliani, il compito della letteratura come una sentinella al di là delle ideologie, la missione dell’intellettuale, l’impegno a non rinunziare «alla sua speciale propensione alla visione complessiva». Molte sono le suggestioni e i temi forti tirati in campo da Amos Oz a Mantova, dove il Festivaletteratura gli fa festa con tre incontri. Lui parla, innanzitutto, dell’ ultimo libro, Scene dalla vita di un villaggio. Nasce da un sogno: «Ho sognato un paese, nato alla fine dell’800, e vuoto. Vagavo tra i cortili abbandonati...Non c’era presenza degli umani e nemmeno degli uccelli. Stavo cercando qualcuno, ma non sapevo chi. All’improvviso non ero più io a cercare qualcuno, ma qualcuno, non so chi, stava cercando me. Al risveglio, avevo pronto il villaggio di Tel IIan». Si direbbe che i personaggi delle sette storie si interroghino intorno ad un mistero, non un mistero preponderante, estremo, da storia gotica o horror, bensì quotidiano e apparentemente semplice: «E’un mistero che inficia la loro sicurezza e li condanna. Non sanno cosa hanno perduto, dove e perché. Rispecchiano l’enigma della vita, la condizione perenne di ricerca, senza sapere esattamente la perdita.»
Oz, in lei c’è un bisogno di riconciliazione rispetto alle ferite passate. E’la dimensione del villaggio…
«Ci sono stati sempre conflitti nei miei libri che si concludono con un finale aperto o il compromesso che è importante, è sinonimo di vita. Il contrario non è l’idealismo, che è fanatismo e morte».
Lei si schiera contro l’intellettuale che firma un appello. E’l’eredità morale di Cechov…
«La tradizione di Zola e Sartre non basta più. Se vedo una persona che sanguina, non impreco contro l’autista incapace, aiuto la persona che soffre. In Medioriente ci sono stati due popoli che sanguinavano ogni giorno. Non bisogna chiederci di chi sia la colpa, ma che cosa possiamo fare».
Lei si è augurato una soluzione “cechoviana”?
«Non è un western, con buoni e cattivi. C’è la ragione contro la ragione. In Shakespeare le tragedie si sciolgono quando i cadaveri si accumulano sul palcoscenico. In Cechov alla fine tutti sono amareggiati ma vivi».
I due popoli capiranno la soluzione realistica di dover diventare vicini di casa?
«Un giorno ci saranno due stati. Uno vicino all’altro. Non c’è alternativa Più di cinque milioni di israeliani non si muoveranno, non hanno nessun luogo dove andare. Quattro milioni di arabi non hanno alcuna intenzione di andare via, non hanno nessuno altro posto. Non una unica famiglia: sono due famiglie molto diverse, entrambe infelici. E’ come dividere un appartamento. Lo dovranno dividere in due piccolissime parti».
Oggi però la soluzione sembra più vicina?
«E’possibile una convivenza pacifica. Ora l’opinione pubblica accetta la nascita di due stati, anche la destra lo riconosce, a differenza del passato. L’influenza della sinistra è diminuita, le sue idee sono state accettate. Quaranta anni fa, io e i miei amici che volevamo due stati potevamo riunirci in una cabina telefonica. Oggi il sessanta per cento la pensa in quel modo».
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«I fanatici sono i nemici da sconfiggere. Albergano da ogni parte. Bisogna combattere la povertà e la disperazione del non avere speranza. Mi sento come il medico di famiglia: se il paziente gli chiede come sarà in salute tra vent’anni, risponde “che ne so”. Ma se ha male di pancia gli prescrive una medicina».
Lei ha detto che uno scrittore dovrebbe seguire un semplice insegnamento morale: cercare di capire tutto, perdonare in parte, dimenticare nulla...
«Mi piacerebbe ricordare, perdonare, non dimenticare nulla e capire, soprattutto. Non sono di quelli che dicono che tutti possono amare tutti e tutti possono perdonare. Mi colloco a metà strada tra Gesù e Foucault, un po’ più vicino a Gesù».
C’è un impegno particolare di chi scrive?
«La letteratura non è un manifesto. Quando c’è da mandare al diavolo il governo, lo faccio con articoli o pamphlets, non con allusioni indirette nei romanzi. Con i romanzi racconto storie, un’esigenza vitale, come bere, e non ha niente a che vedere con la situazione politica, nemmeno con la nazione in cui scrivo, le storie potrebbero svolgersi ovunque. Per questa ragione ammiro in Calvino la capacità di inventare una realtà che diventa più vera della realtà vera».