Gianni Barbacetto, il Fatto Quotidiano 10/9/2010, 10 settembre 2010
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MILANO 1979, LA MORTE ANNUNCIATA DI UN UOMO PERBENE, GIORGIO AMBROSOLI
L’uomo che “se l’andava cercando”, la trovò, la morte, la notte dell’11 luglio 1979. Fu raggiunto da tre proiettili calibro 357 magnum davanti al portone di casa, in via Morozzo della Rocca a Milano. Nessun politico ai suoi funerali, nella basilica di San Vittore, nessuna autorità di governo, nessun uomo della comunità degli affari milanese. Erano presenti soltanto il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e alcuni magistrati. Milano non si accorse della morte del suo “eroe borghese”, ucciso da un sicario mafioso sul finire degli anni Settanta, come oggi non si è accorta di essere diventata la capitale della ’Ndrangheta.
GIORGIO Ambrosoli era un giovane avvocato milanese, brillante e tenace. Nient’affatto sovversivo, monarchico anzi, militante, da giovane, nell’Umi (l’Unione monarchica italiana). È a lui che il governatore della Banca d’Italia Guido Carli affida, nell’autunno del 1974, la banca di Michele Sindona posta in liquidazione coatta. Il commissario liquidatore, assistito dal maresciallo della Guardia di finanza Silvio Novembre, comincia il suo lavoro con normale sollecitudine. Analizza le carte, fa e rifà i conti. In breve svela i trucchi, scopre i giochi di prestigio del grande illusionista che già aveva stregato (e finanziato) molti, tra cui quel Giulio Andreotti che lo aveva definito “salvatore della lira”. Alla fine del 1975, Ambrosoli arriva al cuore del sistema: alla Fasco, la società in Liechtenstein che Sindona sperava restasse fuori dal crac.
INTANTO si accorge di essere entrato in un gioco pericoloso. Constata che le manovre per salvare Sindona procedono su due piani paralleli. Uno è visibile, quello delle defatiganti trattative politiche e delle puntigliose iniziative finanziarie. Il secondo è sotterraneo: quello delle minacce, delle intimidazioni, delle telefonate anonime, degli avvertimenti mafiosi. È a questo punto che Ambrosoli scrive una lettera alla moglie Annalori destinata a essere aperta soltanto in caso di morte. È un testamento morale. “Qualunque cosa succeda, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto”.
QUESTE PAROLE sono scritte il 25 febbraio 1975, solo un anno dopo la sua nomina a commissario liquidatore e quattro prima della sua morte. Ambrosoli ha dunque ben chiaro il senso del suo impegno. “È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. Ricordi i giorni dell’Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il Paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito”. Far politica per il Paese per Ambrosoli significa opporsi ai piani di salvataggio che scaricano i costi del crac (almeno 250 miliardi di lire dell’epoca, circa 800 milioni di euro odierni) sulle spalle dei contribuenti. Sono i piani sostenuti dagli uomini di Andreotti (e della P2): il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Evangelisti, il ministro dei Lavori pubblici Gaetano Stammati, i consiglieri del Banco di Roma Roberto Memmo e Fortunato Federici. Si danno da fare anche Licio Gelli, Massimo De Carolis e, senza troppa convinzione, il banchiere dell’Ambrosiano Roberto Calvi, che in realtà aspira a prendere il posto di Sindona.
Se il piano visibile è pesante, quello sotterraneo è feroce.
AMBROSOLI è bombardato da minacce, da telefonate anonime. Ne riceve almeno sette tra il 28 dicembre 1978 e il 12 gennaio 1979. L’ultima: “Non la salvo più, perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e un bastardo!”. Dopo il gennaio 1979 le minacce si fermano. Tanto che Ambrosoli spera che il pericolo sia passato. Invece la decisione è stata presa, il killer è già all’opera. Sindona lo confida a Enrico Cuccia, l’altro grande nemico del bancarottiere, che va a incontrarlo a New York, in gran segreto, il 10 aprile 1979: “Sin-dona aveva dichiarato che io potevo essere più utile da vivo che da morto”, scrive Cuccia nel suo puntiglioso “verbali-no” dell’incontro, “e aveva quindi fatto sospendere specifiche iniziative nei miei confronti. Invece, Sindona riteneva di doversi assumere la responsabilità morale di fare scomparire Ambrosoli, senza lasciare alcuna traccia”. Ma Cuccia tiene per sé quel terribile avvertimento che forse avrebbe potuto salvare Ambrosoli.