Stefano Lorenzetto, il Giornale 5/9/2010, 5 settembre 2010
Il Giornale, domenica 5 settembre 2010 Nell’Italia abituata da sempre a giocare con le parole prima dei tiggì (Reazione a catena, L’eredità, La ruota della fortuna, Passaparola, Genius), e anche durante i tiggì, il professor Stefano Tonietto, padovano che insegna italiano e latino al liceo classico Concetto Marchesi e non guarda la televisione, ha compiuto un’impresa storica, sbalorditiva, irripetibile
Il Giornale, domenica 5 settembre 2010 Nell’Italia abituata da sempre a giocare con le parole prima dei tiggì (Reazione a catena, L’eredità, La ruota della fortuna, Passaparola, Genius), e anche durante i tiggì, il professor Stefano Tonietto, padovano che insegna italiano e latino al liceo classico Concetto Marchesi e non guarda la televisione, ha compiuto un’impresa storica, sbalorditiva, irripetibile. Ha composto nell’arco di 27 anni, dal luglio 1983 alla primavera 2010, un poema - «comicavalleresco», lo definisce lui - di 64 canti in ottave di endecasillabi: Olimpio da Vetrego, con l’accento sulla seconda «e», visto che siamo in Veneto. Per chi non lo sapesse, l’endecasillabo è un verso di 11 sillabe. Né 10 né 12: 11 esatte. Esempi classici: il dantesco «Nel mezzo del cammin di nostra vita» e il leopardiano «Sempre caro mi fu quest’ermo colle». Al fine di complicarsi ulteriormente più di metà della propria esistenza (ha compiuto 50 anni a marzo), Tonietto, che per i suoi endecasillabi poteva scegliere tra forma aperta (senza rima e senza strofa) e forma chiusa (con rima e con strofa), ha optato manco a dirlo per la seconda. Il Bartezzaghi della Settimana Enigmistica, al confronto, è una passeggiata. Gli ultimi a esserci riusciti furono Ludovico Ariosto con l’Orlando furioso («Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto»), Torquato Tasso con la Gerusalemme liberata («Canto l’arme pietose e ’l capitano / che ’l gran sepolcro liberò di Cristo»), Luigi Pulci col Morgante, Alessandro Tassoni con La secchia rapita. Già che ci siamo, mettiamoci pure Dante. Piccola differenza: il Sommo Poeta si fermò a 14.233 versi, mentre Tonietto è arrivato a più del doppio, 37.064. Per comprendere la portata dell’opera, vale la pena di partire dalla fine, dal Glossario dei termini insueti (ché definirli desueti o inconsueti gli sarebbe sembrato troppo facile) - arcaici, letterari, dotti e dialettali, frammisti a latinismi, forestierismi e neologismi - sparsi a piene mani dall’autore. Giusto per citarne alcuni, in ordine alfabetico: anaglipta, artista del rilievo su pietre dure; bùccina, strumento a fiato in uso presso i Romani; cioncare, bere scompostamente, tracannare; cremastere, muscolo sospensore del testicolo; decertare, combattere; freto, stretto di mare; guagnèle, evangeli; hassiti, eretici del tardo Medioevo; ìrrito, inutile, senza senso e scopo; lonzo, privo di consistenza e vigore; micco, minchione, grullo; nosco, con noi; oricalco, ottone; pettignone, pube; quadrello, tipo di dardo; rècere, vomitare; scetarsi, risvegliarsi; turcimanno, traduttore, interprete; unqua, mai; vectigalia, imposte, tributi; zaghetto, chierichetto. Se siete sopravvissuti sin qui, vi meritate la Gratiarum actio metrice confecta (traduzione: «Ringraziamento scritto in versi»), 23 strofe aggiuntive in omaggio al lettore dell’Olimpio da Vetrego, che finiscono così: «Chiedo perdono, ancor; non fu pigrizia / l’aver chiuso in anticipo la danza, / né fu per dolo qualche amico omesso; / compri ciascun la propria copia, adesso». Eh sì perché il professor Tonietto, una moglie medico legale e un figlio in quarta elementare, ha pure trovato un veneto più matto di lui, Giampiero Dalle Molle, da 16 anni direttore della rivista Inchiostro per scrittori esordienti, che gli ha pubblicato il poema nel catalogo della sua casa editrice, Il Riccio. Totale: 1.100 pagine, conto tondo. Prezzo di copertina: 38 euro. Il primo a leggerlo è stato il padre di Dalle Molle, Umberto, 85 anni, un coltissimo ingegnere in pensione. «Se l’è gustato per qualche settimana mentre sudava sulla cyclette», racconta Tonietto. «Alla fine ha detto al figlio due cose. A: è geniale. B: ne venderete 5 copie». Predizione smentita dai fatti, tant’è vero che l’Olimpio da Vetrego ha già esaurito la prima edizione ed è stato ospitato al Salone del libro di Torino, dove Maurizio Lastrico, attore affermatosi con Zelig, ha letto una scelta di versi. In bilico fra Ruzante e Folengo, con frequenti rimandi non solo alla Divina Commedia ma anche al Decameron di Boccaccio e al Don Chisciotte di Cervantes, il poema raggiunge vette di sublime poesia nel politicamente scorrettissimo, che spazia dalla religione («O cristiani, checché! Quale follia / vi mena, o crudelissimi, a menarvi, / quando sarebbe giusta ortodossia / come fratelli prendervi ed amarvi? / Sulla pagana gente e la giudìa, / sull’eretico è lecito sfogarvi, / ma il battezzato ed il fedele, è crudo / mandarlo all’aldilà col ferro nudo») all’economia («“Non si combatte – chiesi – per la Fama? / Non si combatte allora per l’alloro? / Non si combatte allor per pura brama? / Non si combatte allor che per lavoro? / Non si combatte allor per una dama? / Non si combatte allora che per l’oro? / Non si combatte allora per la Fede?”. / Rideva assai: “Beato chi ci crede”»). L’eroe del poema, Olimpio da Vetrego, è un personaggio immaginario. Tonietto ha tratto l’ispirazione dalla telefonata di un ascoltatore captata per caso su una radio privata: «Pronto? Ah, son Olimpio, chiamo da Vetrego...». Mai stato, il professore, a Vetrego, un archetipo del profondo Veneto, così archetipo da sembrare persino inventato. Frazione di 1.350 abitanti nel Comune di Mirano, tagliata a metà dal Passante di Mestre, all’inizio dell’Ottocento apparteneva ai nobili veneziani Morosini, Grimani e Rezzonico, discendenti dei dogi: solo cinque famiglie di contadini erano proprietarie dei campi su cui lavoravano. Prima dell’immaginario Olimpio, l’unico personaggio famoso espresso da Vetrego fu il figlio di un garibaldino, il sindacalista socialista Gino Piva, morto qui nel 1946, organizzatore nel 1894 del primo sciopero nel Polesine: «Evviva Gino Piva / che col suo bel parlare / tutta la provincia / ha fatto ribellare», cantavano i braccianti. Piva passò però alla storia più che altro come figlio di Carolina Cristofori, la Lidia delle Odi barbare, amante di Giosue Carducci. Il quale arrivò a dettare ai familiari l’epigrafe da scolpire sulla tomba della fedifraga nella Certosa di Bologna. Come ha fatto a scrivere 37.064 endecasillabi? S’è messo lì per 27 anni a contare? «Non serve. Li compongo da quando ero adolescente. Mi vengono spontanei. “Mio caro giornalista Lorenzetto”. Provi a controllare: mio-ca-ro-gior-na-li-sta-Lo-ren-zet-to. Undici sillabe. E quando non tornano i conti, si può sempre ricorrere alla sinalefe, che è la fusione in un’unica sillaba della vocale finale e della vocale iniziale di due parole contigue». Ha un dono di natura. «Non direi. Mi sono diplomato nel 1979 al liceo Marchesi. Nel 2005 ho avuto la fortuna di tornarci come docente: il massimo, per un professore. Sono un fumettista mancato, cresciuto a Topolino e Alan Ford, con un debole per la parodia. Insieme a un amico, Alessandro Amisich, chitarrista classico che poi purtroppo è morto, già al liceo avevamo parodiato la Divina Commedia. Sognavamo il movimento del Parodismo: non ha fatto molta strada, sono rimasto solo io. Dopo aver visto Il prete bello, che il mio concittadino Carlo Mazzacurati ha tratto dal romanzo di Goffredo Parise, ho anche frequentato un corso di recitazione tenuto dall’attore Roberto Citran. Negli anni Ottanta avevo persino fondato un gruppo di cabaret, I Strafanti. In dialetto padovano, strafanto è uno straccetto che può servire ma anche no. Ho scritto alcuni spettacoli di teatro brillante, fra cui Il nome della… cosa?, che prendeva in giro Umberto Eco». L’idea dell’Olimpio da Vetrego com’è nata? «Per noia, a 23 anni, un 4 di luglio, mentre preparavo gli esami universitari. Le idee migliori mi vengono quando sono sotto pressione. I primi tre o quattro canti li ho buttati giù in pochi giorni, ma anni dopo li ho completamente riscritti. Su alcuni canti ho lavorato per mesi interi. Il più corto ha 52 strofe, il più lungo 102. Nel 2005 ho mandato l’opera all’editore, che l’ha sottoposta in lettura a ben 18 editor e alla fine mi ha spronato a completarla». Dopo 22 anni non era ancora finita? «No, mancavano 15 canti. È stato un tour de force. Mi svegliavo in piena notte con un verso in testa e me lo appuntavo. D’estate, al mare con la famiglia a Giulianova, in Abruzzo, componevo sotto l’ombrellone». La trama qual è? «Il poema racconta una vicenda immaginaria, con personaggi fittizi, ambientata nell’Italia cinquecentesca. La storia è narrata in prima persona da un poeta fallito, Tonno, che s’accompagna in qualità di mentore, oggi diremmo manager, al contadino Olimpio, spinto controvoglia in cerca d’avventure cavalleresche e guerresche. Scopo ultimo del sodalizio è arricchirsi, dedicando a qualche signorotto il poema che il Tonno dovrà scrivere sulle gesta di Olimpio, novello paladino. Nel viaggio da Vetrego verso Mantova, Bologna, Firenze, Roma e altre parti d’Italia, la compagnia si arricchisce via via di personaggi: l’astutissimo Pésca, faccendiere e truffatore, affetto da una gravissima forma di cleptomania; il dottor Pizzànfara, tuttologo dalla perversa logica sofistica; messer Martino, affezionato al suo originario mestiere di boia; Lancillotta, bellissima e ruvida donna guerriera; Paganotto, diavolo teologo; il vecchio Olindo da Vetrego, nonno di Olimpio, bisbetico e linguacciuto pirata». S’è ispirato a qualche opera? «Amo molto il Morgante del Pulci. Ma il modello potrebbe essere L’armata Brancaleone, il film girato da Mario Monicelli nel 1966 che ha per protagonista Brancaleone da Norcia, interpretato da Vittorio Gassman». Molte situazioni rimandano al XIX e al XX secolo. «Sì, ho messo riferimenti ad autori vissuti dopo Olimpio da Vetrego, per esempio ad Alessandro Manzoni e Giuseppe Parini. La penso come Thomas Stearns Eliot: il poeta cattivo imita, il poeta bravo ruba. Ho infilato nel poema accenni non casuali anche a Fabrizio De André, a Lucio Battisti, alla televisione, al cellulare. E soprattutto ai temi odierni: scontro di civiltà, tolleranza religiosa, contrasto tra scienza e fede, strapotere dei media, corruzione, inquinamento, corsa agli armamenti. Per esempio nel canto 46 alludo alle due guerre mondiali: “Moriranno sui mari, ed anche sotto, / sui campi e monti e tra robuste mura, / strisciando in buche e procedendo al trotto, / moriranno per aria, addirittura. / Moriranno parecchi nel Diciotto, / nei Quaranta con simile ventura, / meno ch’eroi non moriranno vili, / e non più militari che civili. / Moriranno di ozio o di lavoro, / per aspra fame o dira pestilenza, / chi per il giallo e chi per altro oro, / chi perché troppo n’ha, chi perch’è senza”». Urge una glossa. «Non si muore solo per la brama di oro giallo. Ne uccide di più il petrolio, l’oro nero. Comunque l’intero poema è governato dall’educazione cinica, una materia che un giorno mi piacerebbe insegnare. Tutti i personaggi si muovono solo per interesse e i loro grandi ideali sono assoggettati a questo. Lo spirito è quello carnascialesco che fu già di Rabelais, non privo di un disincanto tutto moderno. Di ciò di cui non si può più parlare, conviene ridere. O, per dirla con Friedrich Nietzsche, sia falsa ogni verità che non abbia destato almeno una risata». Qual è lo scopo del suo poema? «Promuovere un ritorno alla poesia. Il romanzo in prosa si divide oggigiorno, con il saggio e il manuale, la quasi totalità degli scaffali delle librerie». Ma se gli italiani non fanno altro che scrivere poesie! «Ma non leggono quelle altrui. Verifichi. Anche fra i miei studenti: solo romanzi. Eppure la parola roman indicava in origine un componimento narrativo in versi. Io non ho scritto un romanzo perché non ne sono capace. Riesco solo a esprimermi in endecasillabi rimati. Una scelta suicida, lo capisco. Però tornare al passato, a volte, è un progresso. Non è vero che il lettore medio non sia più in grado di leggere in ottava rima. E, se fosse vero, sarebbe un buon motivo per tornare a insegnarglielo». Ma lei ce l’ha anche col verso libero, del quale s’è abusato nell’ultimo secolo. Ha in mente qualche poeta sopravvalutato? «Mi dispiace dirlo, perché è morto da poco: Edoardo Sanguineti. Essendo di sinistra, per la sua ideologia avrebbe dovuto comunicare alle masse. Invece è stato elitario al massimo. Al pari di Ezra Pound che si esprimeva in ideogrammi cinesi. Poeti che sembrano dirti: caro lettore, di te non m’importa nulla». I suoi studenti che pensano dell’Olimpio da Vetrego? «Hanno saputo che l’avevo scritto soltanto quando il Comune di Padova ha concesso la Sala Livio Paladin per la presentazione. Mai vista tanta gente. Molti l’hanno anche comprato, con mio grande imbarazzo, perché 38 euro non sono pochi. Ma del resto chi non ha un conflitto d’interessi al giorno d’oggi?». Un suo allievo riuscirebbe a scrivere un’opera del genere? «Io insegno nel triennio, per cui la selezione naturale viene fatta prima. Quelli che ci arrivano, sono molto motivati. Un mio ex alunno, Fabio Sangiovanni, sta studiando il poema per scriverci un commento critico. Può farlo: prendeva tutti 10». Ha un consiglio da dare a Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione? «Uno su tutti: raddoppiare lo stipendio agli insegnanti, che così spenderebbero in vestiti griffati, verrebbero a scuola in Maserati e innescherebbero un circolo virtuoso. I ragazzi li vedrebbero finalmente come un modello di successo nella vita e quindi si darebbero da fare per imitarli, piegandosi di più sui libri». Lo sa che sono molto preoccupato per il titolo da dare a quest’intervista? «Guardi, faccia come ho fatto io, che con l’Olimpio da Vetrego mi sono uniformato al motto coniato del professor Marco Olivi, un mio amico docente di giurisprudenza all’Università di Padova». Cioè? «“Unire il futile al dilettevole”. Non viviamo nel mondo del futile? Ho scritto un’opera che non guadagnerà, che non entrerà in classifica, quindi un libro futile, che però mi ha divertito. Anzi, ho deciso: fonderò il movimento del Futilitarismo».