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 2010  settembre 09 Giovedì calendario

LA SISTINA MALATA

«Guardi», mi suggerisce Antonio Paolucci direttore dei musei vaticani indicando: «guardi per esempio quel Botticelli». Guardo il mirabile affresco quattrocentesco sulla parete senza troppo capire perché il professore me l´abbia additato. Siamo nella Cappella, proprio di fronte all´altare, venti e passa metri sopra la nostra testa incombe l´enorme figura michelangiolesca di Giona, la più grande in quello spazio. La vasta aula è gremita, nell´aria c´è come il brusio sordo di un alveare, un va e vieni continuo. Paolucci prosegue: «Non vede nulla a parte l´affresco, vero? Si aspettava forse di osservare i segni del guasto, arrivare magari a sfiorare qualche crepa. Non siamo a quel punto, per fortuna, né probabilmente ci arriveremo. Eppure il pericolo c´è, nostro dovere è prevenirlo». Non è facile per un profano capire quali danni possano mai venire da una folla, numerosa certo, ma in fondo ordinata e tutto sommato silenziosa; si vede benissimo che ognuno cerca di muoversi con la circospezione dovuta a un tale luogo. Qui infatti, prima ancora dei riti sacri e profani (il conclave) che vi vengono celebrati, si è di fronte alla smisurata genialità di un uomo e dicendo "smisurata" intendo riferirmi non solo al livello dell´opera ma anche alla sua estensione fisica, mai più uguagliata.

Il lavoro di un uomo che da solo, per lunghissimi anni, rannicchiato o proteso in posture di micidiale difficoltà, il volto inondato dalla scolatura dei colori, ("Il pennello gocciando tuttavia, mi fa sul viso un ricco pavimento", così l´artista in un sonetto), il braccio per ore levato in alto, ha coperto di pitture mille e duecento metri quadrati di superficie con l´ardua tecnica dell´affresco che vuole estrema chiarezza di idee prima di cominciare, poi grande velocità di esecuzione. Prima (dal 1508 al 1512) le lunette e la volta, poi, dal 1535 e per altri sei anni di lavoro, la parete del Giudizio in un progetto pittorico, architettonico e teologico di immane complessità.
«Il nostro dovere è conservare intatta questa eredità», aggiunge Paolucci, «difendendola da quella che chiamo la "pressione antropica". La Cappella è visitata da un numero di persone che varia dalla 15 alle 20 mila al giorno vale a dire 4 milioni e mezzo all´anno. Non c´è visitatore che arrivato a Roma non voglia vedere il Colosseo e i musei vaticani, e nei musei vaticani la Sistina. La nostra dev´essere un´azione di medicina preventiva». Numeri a parte, obietto, che sono oggi enormemente superiori, è stato sempre così d´altra parte. «Non è vero. Una volta i visitatori preferivano il Raffaello delle stanze e delle Logge, il Laocoonte, l´Apollo del Belvedere …». Paolucci sottolinea il fatto che in passato c´è stato un periodo in cui Michelangelo veniva considerato troppo brutale, troppo drammatico, fuori d´ogni misura, altri erano i riferimenti ideali. «Il mito era Raffaello», afferma con decisione. Del resto era accaduto lo stesso per Shakespeare giudicato anch´egli un barbaro inventore di trame caotiche, piene di disordine e di sangue. Il XVIII secolo voleva ordine, simmetrie, moderazione, tutto ciò che né Shakespeare né Michelangelo potevano dare, il contrario di ciò che il loro genio aveva colto nelle storie e nella natura degli uomini. Oggi i gusti sono cambiati, la gran folla dalla quale siamo attorniati non degna quasi di uno sguardo i tre magnifici Botticelli, e gli altri affreschi delle pareti: Perugino, Pinturicchio, Luca Signorelli, Ghirlandaio che hanno raffigurato sulle pareti, fronteggiantesi, la storia dei due grandi legislatori: Mosè da una parte, Cristo dall´altra: «Il primo coerente capolavoro del Rinascimento portato a Roma», lo definisce Paolucci. È possibile che soltanto pochi si rendano conto della qualità e del significato di quei capolavori. Non ci sono occhi che per Michelangelo: le lunette, la volta, la parete del Giudizio.
«Lui sarebbe contento», suggerisce ironico Paolucci, «perché Michelangelo è stato il primo a saper costruire la sua immagine. Raffaello aveva 25 anni quando affrescò l´appartamento di Giulio II. Michelangelo pochi di più: 33, ma dalla sua aveva quello che il professore definisce il suo "ventriloquo" vale a dire il Vasari, formidabile costruttore di storie che molto contribuì a diffonderne, glorificandola, la figura».
Tutto questo sarebbe a repentaglio? Chiedo. «Tutto questo, risponde Paolucci, può innescare una deriva che se non monitorata e regolata può portare a danni seri. I parametri di un luogo come questo esigono una temperatura e un´umidità relativa costanti». Scusi professore ma la Cappella non è già monitorata? «Certo che lo è, qui siamo in uno dei luoghi più monitorati del mondo da almeno quindici anni. Però questi apparecchi, ormai di vecchia generazione, non riescono più a riequilibrare la temperatura e l´umidità nei giusti parametri. Una prova? Quando a sera la Cappella, e i musei, chiudono, ci si rende conto che i valori sono andati fuori misura. Certo poi rientrano durante la notte, ma il giorno dopo si ricomincia e così per tutto l´anno, giorno dopo giorno».
Paolucci è nato a Rimini, ha nello sguardo il balenio ironico dei romagnoli, di tanto in tanto si concede il lampo di una battuta. «In questa Cappella, dice, viene spesso invocato lo Spirito. Ma le persone che ogni giorno la riempiono non sono puri spiriti. Una folla come questa, noi compresi, emana essudazioni, respiri, cioè anidride carbonica, polveri di ogni tipo, residui di gas di combustione, frammenti di fibre naturali e sintetiche, minuscoli brandelli epiteliali: pelle, capelli. Questo micidiale pulviscolo è trascinato dalle correnti e va a depositarsi sulle mura, cioè sulle opere».
Un grande antiquario italiano che opera a Parigi, Giovanni Sarti, una volta mi illustrò lo stesso concetto con un esempio elementare che ognuno di noi ha certamente verificato. Se si toglie dalla parete un quadro dopo qualche anno d´esposizione, si vede lo spazio vuoto incorniciato da una robusta cornice di sporcizia. La stessa sporcizia si trova sul quadro dove però è più difficile vederla.
«Questo è sicuramente vero» commenta Paolucci che aggiunge: «un grande maestro del restauro, Giovanni Urbani, diceva che tra l´arte antica e l´arte moderna esiste di sicuro una grande discontinuità, una frattura. Oggi non ci sono più in giro i Raffaello e i Michelangelo. Noi però, grazie alla scienza e alla tecnica, possiamo sviluppare una qualità di inventiva nel conservare i capolavori del passato, pari alla creatività che i grandi maestri avevano a loro tempo dispiegato. Personalmente condivido l´analisi di Urbani». Anche in questo caso non è stato sempre così. In passato non c´erano lo scrupolo, l´attenzione al mantenimento delle opere così aumentato (per fortuna) negli ultimi tempi. «Era certamente così», risponde Paolucci. «papa Giulio II della Rovere ha fatto buttare giù la basilica di san Pietro di Costantino affrescata da Giotto perché era certo di poterne far fare lui una nuova ancora più bella. Oggi sarebbe impensabile, ecco perché pretendiamo che le eredità del passato diventino in certo modo immortali».
Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso la Sistina venne completamente ripulita tra molte polemiche poi rivelatesi del tutto infondate. Si può ben dire che il risultato, eccellente, è sotto gli occhi di chiunque. Ma il professor Paolucci aggiunge una postilla sorprendente: «L´impresa che ci aspetta, dice, è forse ancora più difficile di quella che Luigi Colalucci e l´équipe di restauratori compirono felicemente trent´anni fa. La pulitura fatta allora è eccellente. Noi però, per garantire a chi verrà una conservazione impeccabile, dovremo trovare meccanismi, protocolli, strumenti che sono in buona parte ancora da studiare e tarare».
Antonio Paolucci ha diretto, prima dei Vaticani, gli Uffizi di Firenze. Mentre usciamo dalla Cappella fendendo la folla, non posso trattenermi dal fargli una domanda sulle diversità, a parte il valore e la quantità delle opere, tra i due organismi. Ha un altro di quei suoi lampi di marca romagnola nello sguardo. Dice: «Sa qui non ci sono i sindacati. Soprattutto non c´è il Tar».