Raffaele Alliegro e Emilio Laguardia, Messaggero 8/9/2010, 8 settembre 2010
I VISIGOTI A ROMA
Un nazione ricca e potente. Floridi commerci tra l’Atlantico e l’Oceano Indiano. Un esercito invincibile. Un melting-pot di razze, culture e religioni. E un gruppo di ribelli, adepti di uno scisma religioso, che si scaglia con violenza contro la città simbolo del mondo. Sembra l’11 settembre 2001, ma non siamo a New York e i ribelli non sono Al Qaeda. La città è Roma, l’Urbe invasa dai visigoti di Alarico che con il “sacco” della Città Eterna colpirono per la prima volta direttamente il cuore della civiltà. Di quell’attentato alle solide certezze della superpotenza dominante si celebrano ora i mille e seicento anni proprio a Roma, con due fondamentali congressi internazionali organizzati dall’Istituto archeologico germanico, dall’Istituto svizzero e dalla British school at Rome. Un grande appuntamento con il passato per scoprire le minacce del futuro che ha sullo sfondo una serie di domande. Il “sacco di Roma” del 410 dopo Cristo può essere considerato il primo vero attentato alle Torri gemelle subito dalla cultura occidentale? Chi sono oggi i nuovi barbari? Ed erano poi davvero barbari Alarico e i suoi uomini, in un mondo in cui non si sapeva più neppure chi fossero i romani?
«Nel 410 si viveva un’epoca di cambiamenti profondi, molto simile alla nostra», spiegano Henner von Hesberg e Philipp von Rummel, i due studiosi che sono rispettivamente il direttore dell’Istituto germanico e l’organizzatore di uno dei convegni: «Un’epoca in cui i confini non erano chiaramente definiti. Stilicone, ad esempio, il generale che guidava le legioni di Roma contro i goti era di madre romana e padre vandalo. Come barbari erano la gran parte dei legionari. I goti invece erano cristiani, anche se ariani. E riuscivano ad esprimersi in latino». In questo secolo dominato da romani un po’ barbari e da barbari un po’ romani l’Urbe traeva gran parte della propria maestà dalla sua straordinaria capacità di integrare popoli, intelligenze e culture diverse, creando un equilibrio difficilissimo da conservare. E infatti il 24 agosto del 410 l’equilibrio si ruppe. Al termine di lunghe e ripetute trattative, dopo avere in tutti i modi tentato di evitarlo, forse spaventato egli stesso dall’enormità del suo gesto, Alarico entrò a Roma con il suo esercito, scosse alla radice e abbatté i simboli su cui si reggeva tutto il mondo allora conosciuto.
L’effetto fu enorme, un vero shock culturale. Perché come New York del 2001, la Roma del 410 era una città ricca, cosmopolita, viva e dinamica. Anche se le capitali dell’impero erano Ravenna e Costantinopoli, il Senato era sempre attivo nella Curia. Dal Nord Africa, vero granaio dell’Urbe, dall’Asia e dal resto d’Europa si continuavano a importare merci. Il Colosseo veniva restaurato. Le mura aureliane della città furono innalzate e riedificate, tanto che il loro aspetto attuale si deve più all’imperatore Onorio che ad Aureliano. L’attività edilizia era incessante, come risulta dagli scavi di Trastevere sotto S. Pasquale Baylon. Tutte le strade della cultura, dell’economia e della religione ancora portavano a Roma quando Alarico la devastò. E il sacco venne avvertito come un evento epocale che spinse Sant’Agostino nel De civitate Dei a indicarlo come segno della prossima fine del mondo o della punizione che Dio infliggeva all’antica capitale del paganesimo. «Possiamo forse paragonarlo all’undici settembre dal punto di vista simbolico», aggiungono Henner von Hesberg e Philipp von Rummel, che hanno già messo a fuoco questa particolare prospettiva alla Bbc, «perché dal punto di vista pratico stiamo scoprendo che la Città Eterna non fu devastata come si potrebbe pensare».
È proprio questo il nodo che si tenterà di sciogliere a Roma, dal 7 al 9 ottobre e dal 4 al 6 novembre, nei due convegni che richiameranno archeologi, storici e filologi tedeschi, svizzeri, inglesi, italiani e americani. Quel “sacco”, infatti, comincia a essere visto con occhi diversi dalla storiografia moderna, poco incline a immaginare folle di barbari urlanti che depredano e distruggono per pura malvagità. «L’indagine archeologica ci ha offerto finora dati contrastanti», ammette von Hesberg: «Le monete fuse per l’incendio sul pavimento della Basilica Emilia sono tutte datate prima del 410, segno evidente che la Basilica fu bruciata durante il saccheggio. Ma nel resto della città l’analisi stratigrafica non ci ha restituito nessuna traccia di incendi: sembra che gli edifici siano rimasti intatti. E anche le iscrizioni funerarie dimostrano che il numero delle vittime del 410 fu inferiore a quello che ci si potrebbe attendere da una città depredata e distrutta». Fu un vero saccheggio, dunque? A leggere gli storici del tempo le vittime furono parecchie, come pure gli stupri, gli incendi, le spoliazioni o la cattura di ostaggi, tra cui la stessa sorella di Onorio, Galla Placidia. Sembra però che le violenze furono eccezioni, non la regola: lo stesso Alarico dette ordine di salvare la vita dei cittadini e di non toccare le basiliche. Non a caso qualche anno dopo il 410 Paolo Orosio ammise: nihil factum, niente è successo. «Per questo il sacco di Roma andrebbe forse letto sotto una luce diversa», dice von Rummel: «Probabilmente le truppe di Alarico lacerarono non tanto gli edifici quanto l’immagine simbolica di un potere che fino a quel momento era stato ritenuto eterno». Qualche mese dopo il saccheggio la vita quotidiana dei romani riprese più o meno come prima, forse proprio perché i danni non erano così visibili e diffusi. Ci vollero anni, grazie anche all’opera di Sant’Agostino, per capire che invece tutto era cambiato, che la svolta “simbolica” era stata molto più importante dei danni materiali, che Roma non sarebbe mai tornata quella di prima. Per questo è inevitabile chiedersi, ora, quali ferite invisibili ha procurato anche a noi lo shock dell’undici settembre. Ma forse è ancora presto per capire, solo nove anni dopo, cosa è davvero cambiato e come siamo diventati.