Gianfranco Fini, Corriere della Sera 9/9/2010, 9 settembre 2010
ECCO COME LA PENSO SU FEDERALISMO E RIFORME DELLA COSTITUZIONE
Gentile direttore, con l’articolo di martedì scorso, «Le scelte di Fini dopo la rottura nel Pdl. Destra moderna o Lega Sud?», Angelo Panebianco mi ha rivolto l’invito a precisare meglio alcuni aspetti del discorso che ho pronunciato a Mirabello; in particolare, ad approfondire il tema delle questioni costituzionali e dell’attuazione del federalismo. Accolgo volentieri l’invito, sperando di dare un contributo, sia pure in modo sintetico, ad una maggiore conoscenza e consapevolezza di tali argomenti da parte dell’opinione pubblica.
In merito alle riforme costituzionali, ho sempre sostenuto che qualsiasi approccio riformatore, ritenuto indispensabile da 15 anni ma mai realizzato compiutamente, non possa prescindere dall’intangibilità dei principi fondamentali sanciti dalla prima parte della Costituzione; essi rappresentano, infatti, i capisaldi di quel «Patto repubblicano» del 1948 che ha assicurato all’Italia gli attuali livelli di sviluppo economico e progresso civile, oltre che la coesione stessa della nostra società.
La pari dignità delle persone, l’eguale libertà delle confessioni religiose, la piena libertà di espressione e di associazione, l’autonomia delle formazioni sociali, la dimensione «universalistica» dei diritti sociali, le varie declinazioni del principio di sussidiarietà fanno ormai parte di un patrimonio davvero condiviso da tutti gli italiani e ciò grazie anche alla maturazione e alla trasformazione di tutte le culture politiche che, proprio perché si sono via via riconosciute in questi valori, hanno garantito, nel tempo, la vitalità dei principi e dei valori della cosiddetta «Costituzione materiale».
In relazione, invece, alle esigenze di modifica della seconda parte dell’ordinamento costituzionale, mi preme innanzitutto ribadire che la salvaguardia della possibilità di scelta, da parte degli elettori, della coalizione di governo e la necessità di conferire maggiore incisività e stabilità all’esecutivo non devono necessariamente comportare il ridimensionamento o, peggio ancora, l’abbandono del modello di democrazia parlamentare.
Il problema di fondo, semmai, è quello di aumentare contestualmente la capacità deliberativa e di controllo del Parlamento e quella decisionale del Governo e di farlo in un quadro di rispettiva ed armoniosa crescita dei ruoli, per garantire una più efficiente funzionalità del sistema che non può esaurirsi, come sempre più spesso si sostiene, nel momento elettorale.
La forza delle istituzioni, ed è sempre bene ricordarlo, non dipende soltanto dalla capacità di decidere, ma anche dalla loro fattiva inclinazione e capacità di interpretare attese e domande sociali, di mobilitare coscienze e volontà sulle scelte da compiere e sulle innovazioni da realizzare. Ed è per tutto questo che, nelle moderne democrazie, il ruolo dei parlamenti non è mai marginale, nemmeno nelle democrazie ad ordinamento presi-denzialista, Usa in primis.
Quanto al tema delle riforme dell’ordinamento in senso federale, ho sempre sostenuto che il federalismo non si deve configurare semplicemente come l’assetto dei poteri più rispondente all’obiettivo di valorizzare la diversità delle culture e delle tradizioni nei diversi territori, ma anche come strumento attraverso cui liberare energie positive, favorendo assetti normativi ed istituzionali più avanzati, nella consapevolezza che, in ogni società autenticamente democratica, le regole non possono essere dettate solo «dall’alto» secondo schemi rigidamente uniformi.
Ciò, tuttavia, proprio con riguardo alla scottante questione del federalismo fiscale, non può comportare che il passaggio da un sistema di finanza derivata (basato sul cosiddetto criterio della «spesa storica», che, per troppo tempo, ha consentito lo sperpero di denaro pubblico) ad un sistema che dovrà far leva sul cosiddetto «costo standard» (vale a dire sull’effettiva quantificazione della spesa dei servizi offerti ai cittadini di tutti gli enti territoriali) avvenga in modo disgiunto dal corretto funzionamento di meccanismi di perequazione, in grado, se gestiti a livello centrale e in modo imparziale, di ridurre il divario esistente, e non più tollerabile, tra le aree del Paese maggiormente sviluppate e quelle affette da ritardi storici. Ovviamente, in questo contesto, non mi sfugge il fatto, per rispondere a quanto osserva puntualmente Panebianco, che le classi dirigenti del Sud saranno chiamate a compiere un significativo salto di qualità in termini di efficiente gestione della «cosa pubblica» e sono certo che, se rinnovate, ne saranno capaci.
Sotto questo profilo, federalismo fiscale e federalismo istituzionale sono due facce della stessa medaglia e seguono il filo di una necessaria linea di continuità che deve richiamare tutte le forze politiche, nei diversi ruoli che esercitano ai vari livelli di governo territoriale, ad una comune ed ineludibile responsabilità di fronte ai cittadini.
Penso sia questa la vera via per onorare quel patto con gli elettori che ha fatto raccogliere al Centro-destra, nelle elezioni del 2008, un così vasto consenso in tutte le regioni d’Italia. È questa la strada, alla vigilia dei 150 anni di storia unitaria, per crescere insieme, Nord e Sud, lontani da irresponsabili ipotesi di sviluppo autosufficiente della parte dell’Italia più avanzata economicamente.
Presidente della Camera
Ringrazio il Presidente Fini per la sua cortese replica. Mi permetto però di dire che i miei dubbi permangono. Per quanto riguarda gli aspetti costituzionali, osservo che rafforzare contemporaneamente la capacità deliberativa del Parlamento e quella decisionale del governo è molto difficile nell’ambito delle democrazie parlamentari (il caso dei presidenzialismi è ovviamente diverso). Le democrazie parlamentari oscillano, in genere, fra sistemi con parlamenti forti («la centralità») e governi deboli e sistemi con governi forti e parlamenti deboli o subordinati. È difficile trovare una terza via. Per quanto riguarda il federalismo fiscale, mi pare che se si segue la strada degli interventi perequativi (per il Mezzogiorno), occorra anche indicare come impedire che tali interventi servano più a conservare gli antichi vizi che a stimolare le nuove virtù. E su questo non si può che aspettare di valutare le proposte che, sicuramente, insieme ad altri, farà il suo nuovo movimento politico.
Angelo Panebianco