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 2010  settembre 09 Giovedì calendario

OBAMA E LA GUERRA DELLE CASE


Per capire il dramma del mercato immobiliare americano e le ripercussioni devastanti che sta avendo sulla più grande economia del mondo bisogna uscire dai labirinti urbani di New York, Chicago e Los Angeles. Bisogna noleggiare un macchinone made in Usa, lasciarsi i grattacieli alle spalle e inoltrarsi nei sobborghi che hanno colonizzato le praterie, montagne e deserti di questa nazione-continente.
Bisogna fermarsi nelle stradine che un tempo erano linde e pinte ed ora sono paesi fantasma, periferie dormitorio dove ormai non vuole dormire più nessuno. Negli ultimi mesi sono stato in sette Stati per lavoro e per piacere - dal Vermont nel Nord-Est alla Florida, dal Tennessee nel profondo Sud alla California - e sono ritornato con immagini indelebili. Il sogno americano in technicolor - i prati verdi, le staccionate bianche, i bambini biondi - si è trasformato in un incubo in bianco e nero: finestre sbarrate, cartelli «for sale» (in svendita) e immondizia nelle strade.
La guerra più importante per Barack Obama non è in Iraq e nemmeno in Afghanistan ma è in Nevada, Florida, Arizona e tutti gli altri Stati dove i prezzi delle case sono crollati di più del 30 per cento in due anni, dove milioni di persone sono senza lavoro e senza speranza.Per evitare una batosta alle elezioni di medio termine, i Democratici devono vincere sul fronte interno - l’«altra» America, quella che non ha il passaporto e si accultura con i reality shows, reality tv. E se Obama non riesce a convincere la maggioranza degli americani che l’economia è in via di miglioramento, rischia di passare alla storia come una meteora nel firmamento della politica americana: un presidente monotermine sconfitto dalla crisi finanziaria.
La politica è un gioco iniquo dove i governanti attuali sono giudicati su situazioni create dai loro predecessori. Il presidente che vinse e convinse con lo slogan del «Sì, possiamo» è prigioniero di questo paradosso più di molti altri inquilini della Casa Bianca. Per far risorgere un’economia distrutta dal crollo immobiliare, l’amministrazione deve riformare un sistema della casa puntellato da decenni di compromessi politici, pasticci finanziari e bugie sociologiche. Il dilemma che angustia il governo americano del 2010 ha le sue radici nel 1929 quando il neopresidente Herbert Hoover provò a risollevare il morale di un Paese in preda alla Grande Depressione con la promessa di una «nazione costruita sui proprietari di case».
L’idea si cristallizzò nel New Deal di Franklin Roosevelt quattro anni dopo, con la decisione da parte dello Stato di sovvenzionare gran parte dei mutui per far sì che le classi medio-basse diventassero padroni d’immobili.
Il trucco fu la creazione di un’agenzia dal nome buffo - «Fannie Mae» (sta per Federal National Mortgage Association) - ma dal compito serissimo: sfruttare il suo status di ente parastatale, e quindi garantito dal governo, per ottenere fondi a prezzi stracciati sui mercati e smistarli alle banche per «sponsorizzare» i mutui e tenere i tassi bassi. Da quel giorno in poi, la percentuale di americani padroni di case non fece altro che salire: 45 per cento dopo la seconda guerra mondiale, 64 per cento nel 1968 e 69 per cento nel 2005, un record raggiunto grazie a politiche economiche lassiste dei governi Clinton e Bush.
Altre nazioni, come l’Irlanda, l’Australia, la Gran Bretagna e, naturalmente, l’Italia, hanno tassi di proprietà più elevati ma in nessun altro Paese il governo ha un impatto così potente e diretto sul mercato immobiliare.
I cittadini americani sono diventati casa-dipendenti e lo spacciatore era proprio lo Zio Sam: Fannie Mae e il cugino Freddie Mac - nome ugualmente ridicolo, stesso ruolo di sovvenzionatore - sono diventati gli esponenti di punta di una bolla immobiliare che è durata esattamente fino al 7 settembre del 2008. Quel giorno, l’amministrazione Bush fu costretta a prendere possesso di Fannie Mae e Freddie Mac prima che precipitassero in bancarotta, annientate dalla caduta dei mercati, la débâcle dei mutui subprime e la stupidità di dirigenti che credettero alla favola di un mondo in cui i prezzi delle case non sarebbero scesi mai. La nazionalizzazione delle due società è costata cara agli azionisti di Fannie e Freddie, che hanno perso i loro investimenti ma la bolletta più salata è toccata ai contribuenti. Fino ad ora, le due società-zombie sono costate al governo 150 miliardi di dollari per tamponare le perdite e continuare a sovvenzionare i mutui ma le stime ufficiali parlano di un conto finale di circa 380 miliardi - più del prodotto interno lordo di un Paese come la Grecia.
Il problema è che né Obama né il Congresso sanno come risolvere il dilemma di Fannie e Freddie. Chiuderle non si può. Fantasma o no, le due società garantiscono nove su dieci mutui in America e smantellarle costringerebbe milioni di persone a pagare tassi molto più alti su 5.600 miliardi di dollari di prestiti immobiliari - una strategia suicida che spingerebbe la disoccupazione a livelli stratosferici e porterebbe ad un altro tracollo nei prezzi delle case.
Ri-quotare Fannie e Freddie sui mercati è fuori discussione visto che nessun investitore si sognerebbe di comprare le azioni di due compagnie in crisi totale. La risposta alla paralisi di un sistema che è durato 81 anni non può che essere graduale, ma deve partire da un’ammissione di fondo che Obama e i suoi devono al popolo americano: possedere una casa non è un diritto. Un immobile è un investimento come un altro e può essere comprato solo da chi se lo può permettere. Il ritiro dei sussidi statali dal mercato delle case dovrà essere lento - ed accompagnato da altri aiuti (per ridurre i prezzi degli affitti, per esempio) - ma inesorabile.
Se gli Usa vogliono mantenere il loro predominio sull’economia mondiale, non possono continuare ad essere in balia di un ciclo nefasto che fa di ogni boom una crisi. Come mi ha detto un capo di un fondo d’investimento che ha perso milioni di dollari durante la crisi: «Un mercato immobiliare drogato dallo Stato non aiuta proprio nessuno».
Gli ideologi del centrosinistra - e ce ne sono tanti tra gli uomini di Obama - sostengono che l’acquisto di una casa è un metodo di emancipazione economica per le classi meno ricche e che comunità urbane popolate da padroni di case sono più stabili e sicure di città di inquilini. Avendo viaggiato nel cuore non pulsante dell’America, io non sarei così sicuro. Una delle lezioni della crisi degli ultimi due anni è che, quando le bolle scoppiano, i mutui non si possono pagare più e il sogno in technicolor diventa un incubo in bianco e nero, i primi a pagare sono sempre i più poveri.
*caporedattore finanziario per il Financial Times a New York