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 2010  settembre 09 Giovedì calendario

«Inutile fidarsi, vogliono solo che non se ne parli» - «La sofferenza di Sakineh, l’ho vissuta sulla mia pelle, non la potrò mai scordare

«Inutile fidarsi, vogliono solo che non se ne parli» - «La sofferenza di Sakineh, l’ho vissuta sulla mia pelle, non la potrò mai scordare. In quelle galere la morte non è la cosa più terribile. Una vita in cui possono frustarti, violen­tarti, torturarti, in qualsiasi momento è un universo d’in­sopportabile, insostenibile do­lore. In quelle condizioni pre­ferisci crepare pur di non ve­nir più seviziata. Implori di morire pur di non venir nuova­mente umiliata. Speri di chiu­dere gli occhi pur di non veder altri tuoi amici morire». Marina Nemat l’orrore di Sakineh Mohammadi Ashtia­ni, la donna iraniana condan­n­ata alla lapidazione per adul­terio, l’ha vissuto 28 anni fa. Era il 1982, lei aveva 16 anni e Khomenini era pronto a far piazza pulita di tutti nemici. Pronto a spedire al patibolo anche una ragazzina colpevo­le solo di essere cristiana e di aver criticato la rivoluzione islamica sul giornalino del li­ceo. Quelle poche righe costa­r­ono a Marina Nemat una con­danna a morte, anni di carcere e torture. Per evitare il patibo­lo e ric­onquistare la liberta do­vette concedersi al suo inquisi­tore, rinnegare la propria reli­gione, convertirsi all’Islam, sposare il proprio aguzzino. Poi il destino mise fine alla vita del padre-padrone e lei poté fuggire in Canada, incomin­ciare una nuova vita, mettere mano, 25 anni dopo, alle me­morie di «Prigioniera a Tehe­ran ». In quel libro tradotto in 13 lingue Marina Nemat riper­­corre gli orrori del carcere, rivi­ve le paure di chi come Saki­neh si sveglia ogni giorno con il terrore del boia. Paure e an­sie che rivivono in questa inter­vista al Giornale . «In quelle condizioni sei to­talmente traumatizzato, il tuo cervello smette di funzionare. Non puoi più riflettere sul pas­sato o sul futuro. Vivi uno choc perenne. Quando dopo anni esci da quell’inebetimento sei come un soldato sopravvissu­to. Non dormi più, passi da un incubo all’altro, sei incapace di affrontare la quotidianità. Per Sakineh è anche più dura. Nell’ultimo mese non ha sof­ferto solo il terrore dell’esecu­zione, ma anche torture e fru­state. E alla sua infinita tristez­za si aggiunge quella dei figli. Non dimenticatevi di loro. An­che loro devono esser fatti uscire dall’Iran, da quel paese diventato prigione ed incubo. Oggi le autorità iraniane di­cono di voler rivedere la sentenza. C’è da crederci? «Sono specialisti nel mani­polare e travisare la realtà. Io l’ho imparato sulla mia pelle. Quand’ero in galera le cose pri­ma miglioravano, poi tornava­no come prima. Fa parte del gioco. Leggetevi il comunica­to. Dicono di voler rivedere l’accusa d’adulterio, ma ag­giungono di voler esaminare meglio l’ipotesi d’omicidio. Non a caso quell’imputazione è saltata fuori non appena è scattata la pressione interna­zionale. Se molliamo la presa rischiamo di svegliarci e sco­prire che Sakineh è stata gra­ziata per l’adulterio, ma spedi­ta al patibolo per aver ucciso il marito. Anche se non esistono prove. Anche se è tutto falso. Per salvarla dobbiamo conti­nuare a lottare». Sakineh è una poveraccia, perchè dovrebbero volerla morta a tutti i costi? «Voi non capite, ragionate con la logica di chi vive in pae­si dove valgono il diritto e la legge. A Teheran contano la forza, la vendetta, il potere ar­bitrario. Torturare, uccidere, lapidare Sakineh è un mezzo come un altro per imporre il controllo sulla società. Spe­cialmente ora. Manifestazioni e proteste hanno spaventato il regime e lui reagisce con vio­lenza per salvaguardare il pro­prio potere. Costringere le donne a rispettare le regole, vietar loro di uscire, imporre velo ed hijab serve a dimostra­re che il potere è ancora ege­mone e nessuno deve sfidarlo. Far capire che chi non obbedi­sce rischia di morire tra atroci sofferenze serve a disinnesca­re la voglia di rivolta. Per que­sto le donne sono nel mirino. Per questo Sakineh è il capro espiatorio delle debolezze del regime». Perchè proprio lei? «Sakineh non è la sola, è l’unica per cui ci battiamo. In Iran ci sono almeno 12 donne condannate alla lapidazione. Ogni anno si svolgono almeno 10 lapidazioni ufficiali assie­me ad altre non pubblicizzate. Quando pensate a Sakineh ri­cordatevi che le carceri sono stracolme, che la gente scom­pare nel nulla, che in quelle ga­lere si muore dimenticati ed ignorati». Di Sakineh in Iran non par­la n­eppure la cosiddetta op­posizione «verde». «Grazie a internet e tv satelli­tari gli iraniani, sono informa­tissimi. I miei amici giornalisti rimasti lì parlano ogni giorno con i figli di Sakineh, ma non possono pubblicare una riga perché vivono sotto la spada di Damocle della repressione. Finché sai e taci non succede nulla. Non appena agisci la spada cade e t’ annienta».