Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 08/09/2010, 8 settembre 2010
UNA MISSIONE ARCHEOLOGICA ALLA RICERCA DEL MONTE SINAI
La Missione archeologica italiana da me guidata nel deserto del Negev, Israele, opera dal 1980. Dopo alternanze di modesti finanziamenti annuali da parte del Mae, da diversi anni non ha più sovvenzioni. Da quando abbiamo emesso l’ipotesi che la montagna da noi studiata, Har Karkom, mostrasse evidenti somiglianze a quello che la Bibbia chiama Monte Sinai, si è scatenata una critica nei nostri riguardi che ha cercato di fermare le nostre ricerche e ha praticamente impedito sovvenzioni pubbliche o private.
Emmanuel Anati
Direttore Centro Camuno di Studi Preistorici
Caro Anati, in una relazione sugli scavi che lei conduce da molti anni nel deserto del Negev, leggo che la sua squadra ha lavorato su un’area di 200 km quadrati in una zona desertica del territorio israeliano incuneata fra la penisola del Sinai a occidente e la valle dell’Arabah a oriente. Avete scoperto 1300 siti archeologici e sareste giunti alla conclusione che il monte Har Karkom (in realtà due grosse colline giallastre a breve distanza l’una dall’altra) sarebbe stato un luogo sacro sin dal l a preistoria e avrebbe ospitato santuari di molte divinità fra cui quello di Sin, dio della luna, da cui deriverebbe la parola Sinai. È questo per l’appunto il risultato più importante dei vostri scavi ed è questa, forse, la ragione, per cui essi stanno suscitando qualche malumore in ambienti accademici e religiosi. La sua ipotesi di lavoro, caro Anati, è che Har Karkom sia per l’appunto il monte Sinai dove Mosé dette al suo popolo le leggi del Signore. La missione avrebbe individuato persino la grotta in cui Mosé riparò dopo la rivelazione. Gli scavi darebbero quindi un duro colpo alla tradizione secondo cui il Monte Sinai sarebbe invece la collina in territorio egiziano dove sorge, sin dall’epoca bizantina, il monastero di Santa Caterina. Ma avrebbero il merito di confermare l’esistenza di un luogo sacro all’ebraismo e al cristianesimo. Non sono in grado di giudicare i risultati scientifici del suo lavoro, ma spero che lei trovi i finanziamenti necessari alla prosecuzione degli scavi. La missione fu sin dall’inizio italiana e poté contare sulla collaborazione del dipartimento israeliano per le antichità. Il governo italiano e quello israeliano dovrebbero continuare a sostenerla.
La sua lettera, caro Anati, conferma quanto sia difficile il mestiere dell’archeologo. Per molto tempo, sin dall’Ottocento, le missioni archeologiche sono state usate dai governi per rivendicare territori «irredenti» o puntellare con argomenti storici le loro ambizioni egemoniche. Molte missioni archeologiche in epoca fascista, per esempio, servivano a esaltare il ruolo di Roma nel mondo antico. Se l’archeologo scopre ciò che conviene al committente, quindi, i governi ne sono felici e colgono l’occasione per atteggiarsi a generosi sostenitori delle arti e delle scienze. Ma se scopre ciò che non interessa o, peggio, nuoce, i governi smettono di aiutarlo finanziariamente.
Le auguro di non essere finito in questa seconda ipotesi.
Sergio Romano