Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 08/09/2010, 8 settembre 2010
TROPPO LARGHE QUELLE MAGLIE PER L’INGRESSO NELLE BANCHE
L’ascesa dei libici in Unicredit apre una questione scottante: come conciliare la libera circolazione dei capitali e gli interessi nazionali. Nel 2005, quando a scalare Antonveneta e Bnl erano lo spagnolo Bbva e l’olandese Abn Amro, torti e ragioni sembravano chiari: aprire al controllo estero era il progresso, difendere il controllo nazionale no. La storia ha ben presto fatto emergere il manicheismo di quella semplificazione. E ora? La scalatina estiva della Libyan Investment Authority, che ha raggranellato il 2% di Unicredit senza informare nessuno quando la Central Bank of Libya aveva già il 4,99%, non determina ancora un’emergenza, ma basta a porre il problema di come ci si rapporta con un fondo sovrano che viola, quantomeno, il galateo.
Vi è, anzitutto, un profilo regolatorio. Prima del 2009, chiunque — da solo o in concerto — avesse voluto superare le soglie rilevanti di partecipazione in una banca (5%, 10%, 20%, 33%, 50%) doveva darne notizia preventiva alla Vigilanza e attenderne l’autorizzazione. La Commissione Ue ha cancellato la soglia del 5%. E però una partecipazione rimane rilevante quando, al di là della quota, consenta un’influenza notevole, che, a titolo d’esempio, la Banca d’Italia individua nella designazione di uno o più consiglieri. Per avere via libera, il pretendente doveva e deve avere conti in ordine e buona reputazione, un criterio, quest’ultimo, di evidente discrezionalità.
La situazione attuale presenta aspetti paradossali. Esiste un concerto tra la banca centrale libica e il "suo" fondo sovrano? Il Paese che ha scoperto i furbetti del quartierino dice di sì. Ma poiché la Libia è uno Stato estero, per giunta extracomunitario, la Banca d’Italia non ha mezzi formali per verificare in loco l’affermazione libica secondo la quale i due soggetti decidono ciascuno per conto suo. Starà al comitato governante di Unicredit, che si riunisce oggi, accertare se il fondo sovrano vada ugualmente collegato alla banca centrale e dunque debba vedersi sospendere i diritti di voto per rispettare il tetto statutario del 5%. Più in generale, Unicredit dovrebbe dire se il fondo miri a partecipare alla gestione o ad accrescere il peso della banca centrale di Tripoli o ancora se vada considerato come un investitore qualsiasi. La Banca d’Italia, infine, vedrà se amministratori e sindaci di Unicredit abbiano ben interpretato lo statuto sociale. E’ evidente che, ove fosse dichiarato il legame tra i due soggetti statali libici e acclarata un’influenza notevole, emergerebbero problemi con la Vigilanza. Ancor più se la Consob trovasse irregolarità negli acquisti dei titoli. Ma, anche se la scalatina risultasse regolare, quale reputazione si può assegnare a un fondo sovrano che non pubblica il bilancio, non ha un sito online ed è agli ultimi posti delle classifiche sull’osservanza dei Santiago Principles su cui l’Ocse misura l’accountability dei fondi sovrani?
E qui arriviamo alla politica. L’allentamento dei controlli è figlio di un’epoca in cui i commissari Ue irlandesi e olandesi criticavano, applauditi in Italia, l’interventismo dell’allora governatore, Antonio Fazio, salvo scoprire tre anni dopo che le banche da salvare a spese dello Stato erano quelle dei loro Paesi sedicenti esemplari. La storia della Libia in Unicredit andrà come andrà, ma è già evidente che un tetto del 10%, entro il quale ciascuno è libero di formare pacchetti strategici, può aprire le porte all’avventura. Comit e Credit vennero scalati, subito dopo la privatizzazione, da un gruppo di investitori organizzato da Mediobanca nel rispetto dei tetti statutari del 3%. Per quanto discutibile, fu un affare in famiglia. Amen. Oggi, complici le quotazioni ridotte, non ci vorrebbe troppo per mettere assieme due o tre Libie in banca. Era questo il nostro traguardo? Ci sono rimaste barriere come la reputazione. Per farne uso ci vorrebbe la copertura del governo: di un governo libero da vincoli.
Massimo Mucchetti