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 2010  settembre 07 Martedì calendario

SPETTRI DI GUERRA


Il 26 aprile di quest’anno Army Times, periodico dell’Esercito americano ha fornito questi dati: tra i soldati in cura nelle strutture del ministero per i veterani ci sono 950 tentativi di suicidio ogni mese e nel 2009 il numero dei militari suicidi ha superato quello dei soldati morti in guerra.
La struttura che dovrebbe farsi carico dei problemi psicologici dei soldati che tornano dalla guerra in Afghanistan o in Iraq è il Ward54, il braccio psichiatrico del Walter Reed, l’ospedale che si fa carico dei veterani a Washington. Negli altri reparti i feriti, i mutilati, qui invece quasi un braccio fantasma, perché lì non si entra. L’esercito non ama far vedere che molti, troppi, non hanno retto psicologicamente. Anche perché dovrebbe risarcirli. Ecco allora che il Ptsd, il termine che definisce un «Disturbo post-traumatico da stress» viene praticamente bandito. Utilizzando cavilli burocratici, anche se hanno terminato la ferma, alcuni vengono rimandati nelle zone operative, chi ha tentato il suicidio viene cacciato dall’esercito con disonore (e senza soldi). E dietro questi suicidi, tentati o riusciti, ci sono storie di persone che Monica Maggioni, giornalista del Tg1, ha voluto raccontare nel documentario Ward54, presentato a Venezia nell’ambito del Controcampo italiano, seppure in modo semiclandestino (una sola proiezione pubblica in una saletta da 150 posti).
La storia segue le vicende di alcuni veterani che hanno tentato il suicidio. In particolare quella di Kristofer Goldsmith. Kris è andato in Iraq, il suo compito era quello di fotografare e classificare i cadaveri iracheni. Un giorno però l’orrore di una fossa comune fa scattare qualcosa da cui non riesce a liberarsi. Ritorna in patria e la prima cosa che fa è entrare in un negozio di liquori e prendersi litri di whisky. Per un paio di mesi beve a dismisura «prima di allora avevo bevuto cinque o sei volte», afferma. È chiaramente malato, ma l’esercito non ci sta, lo vuole rimandare in Iraq. Lui allora il Memorial Day tenta di suicidarsi. E l’esercito lo congeda. Con disonore.
Kris è a Venezia per accompagnare il film, a sua volta accompagnato dalla sua ragazza «non mi sentirei a mio agio senza di lei, questa è la prima volta che vengo in Italia, gli unici miei contatti con l’Europa sinora erano stati un aeroporto in Germania e uno a Dublino». Ma questa è l’unica nota leggera in un contesto durissimo dove appaiono immagini crude. Alcune, quelle delle fosse comuni, sono state riprese proprio da Kris, altre dalla troupe di Monica Maggioni che ha inquadrato prigionieri iracheni devastati dopo tre giorni abbandonati nel deserto, oppure nel Mash, l’ospedale da campo dove si vede un intervento a cuore aperto, o sulla tristissima processione di militari feriti che salgono sul 130 che li riporta in patria. Immagini che Bush non voleva far vedere ai suoi cittadini.
I soldati da inviare nella guerra bugiarda erano pescati tra le fasce più deboli della popolazione. «I giovani erano reclutati tra coloro che non avevano alternative - racconta Maggioni - ragazzini che arruolandosi speravano di raggranellare il denaro necessario per andare all’università, immigrati di seconda generazione che arruolandosi ottenevano la cittadinanza, addirittura persone condannate per reati minori che così avevano qualche sconto di pena». Poi però dovevano confrontarsi con una guerra odiosa. Così viene spontaneo chiedere a Kris perché lui, di Long Island, quindi vicino a New York, si sia arruolato, soprattutto in un periodo di guerra. «Fin da bambino sognavo di entrare nell’esercito. Mi piacevano le mimetiche, collezionavo mostrine militari, ero affascinato dalle divise. Sognavo di fare la carriera militare sino in fondo, diventando alla fine ufficiale. Mentre ero al liceo ci fu l’11 settembre. A quel punto al sogno di una vita si abbinava un nemico concreto. Alla fine del 2003 mi sono arruolato. All’epoca la guerra era quella in Afghanistan. L’Iraq doveva essere una guerra lampo. Poi l’Afghanistan è stato dimenticato e l’Iraq è stato quel che è stato».
E allora viene da chiedergli quale sia oggi la sua percezione del nemico che aveva visto concretamente. «Questo argomento di chi sia il nemico è un pensiero costante per me. Più imparo, conosco, cerco di comprendere e analizzare, più cambia il mio punto di vista. Da ragazzo, il primo anno in cui mi sono arruolato, mi avevano insegnato che iracheni e afghani erano tutti jihadisti, erano nostri nemici perché avevano come unico obiettivo uccidere americani . Avevamo allora un presidente che ci diceva queste cose, affermando che loro odiavano la nostra libertà. Ora mi sembra sciocco. La guerra fu fatta col pretesto di cercare armi di distruzione di massa che avrebbero potuto distruggere le città americane, anche se la scusa era Libertà in Iraq. Poi vidi Bush che scherzava su queste cose, fingendo di cercare le armi di distruzione di massa sotto la sedia, nello studio ovale. Lì ho cominciato a aprire gli occhi. Mentre tanti al fronte soffrivano, cominciavo a trovare spaventoso quel che diceva».
Kris ha dovuto abbandonare il suo sogno infantile di diventare ufficiale, poi anche quello più modesto di andare all’università con i soldi dell’esercito che non gli riconosce alcuna malattia. Lui non rinnega la sua storia militare, anzi vuole che gli venga riconosciuta. «In prima istanza, ho ricevuto un rifiuto alla mia richiesta; voglio riaprire il caso, l’esercito non può ignorare queste cose, alcuni miei amici sono finiti in galera per avere tentato il suicidio».
La Ptsd è una sorta di insormontabile senso di colpa per quel che si è visto e fatto in guerra e uno dei momenti emotivamente più forti del documentario è la visita di Kris ai genitori di Jeffrey Lucey. Giovanissimo, Jeffrey aveva firmato per arruolarsi contro il parere di mamma. Poi era stato addestrato per partire prima ancora dell’invasione. L’impatto con l’Iraq, a Nassiriya è devastante. Quando si trova di fronte due giovani della sua stessa età, disarmati, Jeffrey esita. Qualcuno invece lo spinge a tirare il grilletto. Spara. Davanti a lui due cadaveri. Jeffrey prende le loro piastrine e non le mollerà più. Quando rientra a casa è devastato, la sua idea fissa è il suicidio, addirittura gli capita di chiedere al padre di tenerlo sulle ginocchia. Una sera il babbo vede la luce accesa in veranda, apre la porta, lungo le scale vede delle fotografie, disposte con attenzione, scende gli scalini, cammina ancora, vede suo figlio, sembra in piedi, invece ha qualcosa intorno al collo. Si è impiccato. Il padre lo solleva e lo tiene in braccio. Per l’ultima volta.
Il prezzo pagato dagli iracheni per la guerra criminale voluta da Bush e co. è spaventoso, ma c’è anche un conto da saldare nei confronti di chi, per ingenuità o ignoranza, ha creduto in buona fede di combattere per la libertà e la giustizia e si è ritrovato privato proprio di libertà e giustizia.