FRANCESCA PACI, La Stampa 8/9/2010, pagina 14, 8 settembre 2010
Musulmani d’Italia Un milione in cerca di moschee - Le barricate della Lega, l’apertura incondizionata del cardinal Tettamanzi, il via libera con riserva economica dell’ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari: i musulmani «senza fissa dimora» di Milano sono diventati un affare di Stato
Musulmani d’Italia Un milione in cerca di moschee - Le barricate della Lega, l’apertura incondizionata del cardinal Tettamanzi, il via libera con riserva economica dell’ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari: i musulmani «senza fissa dimora» di Milano sono diventati un affare di Stato. Sebbene l’Italia conti già 164 moschee, 222 luoghi di culto dedicati alla recitazione del Corano e quasi 400 associazioni culturali islamiche, la richiesta d’innalzare un minareto all’ombra del Pirellone viene percepita da molti come una rivendicazione simbolica più che religioso-edilizia. Dunque discutibile. E pazienza se il presidente americano Obama non teme il canto del muezzin neppure vicino a Ground Zero: prevenire in fondo è sempre meglio che curare. La moschea, in teoria, è uno spazio per la preghiera assolutamente identico a una parrocchia o alla sede d’una riunione buddista. E’ la comunità dei fedeli, la umma, a fare la chiesa. Per questo, anche se sarebbe auspicabile che il locale non fosse vergine, nel senso di mai utilizzato prima, e disponesse di minareto, fontana per le abluzioni rituali e nicchia orientata alla Mecca, la casa del Profeta Maometto può essere benissimo allestita dentro un appartamento, un ex capannone, perfino in una palestra noleggiata nelle ore in cui non c’è il corso di danza. «Preferiremmo acquistare uno stabile e farne una moschea ma poiché sembra sempre più difficile ottenere i permessi e la destinazione d’uso a luogo di culto ripieghiamo sull’affitto» spiega il presidente dei Giovani Musulmani d’Italia Omar Jibril. Ventisei anni, nato a Milano da padre egiziano, laureato in ingegneria edile, Jibril rappresenta le generazione che non vede contraddizione tra ascoltare i Radiohead e leggere il Corano: «Ad eccezione delle moschee di Roma e Milano, quelle con tanto di minareto e fontane, in Italia ci sono solo centri islamici ricavati spesso in scantinati fatiscenti. La moschea dovrebbe essere il faro che rassicura la comunità circostante come il campanile. Ma da qualche tempo avviene l’opposto. A Sassuolo, per esempio, la nuova amministrazione ha ritirato i permessi concessi da quella precedente costringendo i musulmani a pregare in strada un anno e mezzo prima che il Consiglio di Stato restituisse loro lo stabile sequestrato e il diritto». L’11 settembre 2001 ha terremotato amicizie assai più collaudate di quella tra occidente e mondo islamico. Ma sono passati nove anni e gli imam che benedicono pubblicamente Osama si contano sulle dita della mano. Quanti ostacoli ci sono ancora sulla via delle moschee? «Data la sensibilità del tema il blocco è politico, quando si tratta di dare l’ok al cantiere d’una moschea tutti si rimpallano la responsabilità della decisione finale» osserva l’islamologo Stefano Allievi, che ha appena terminato un tomone in inglese sui conflitti che l’edilizia islamica scatena in mezza Europa (un estratto sarà pubblicato a breve da Laterza). La burocrazia può fungere da scusa: la libertà di culto è un diritto sacrosanto garantito dalla Costituzione, ma chi garantisce i profanissimi permessi? «Trattandosi di materia urbanistica toccherebbe agli enti locali - continua Allievi -. Sono loro che verificano i criteri di sicurezza e assegnano la destinazione d’uso a luogo di culto. Ma mentre se a non essere in regola è un oratorio o addirittura un locale dei poco amati Testimoni si concede la proroga di sei mesi, con i musulmani scatta tolleranza zero. Come se fosse selettiva, la legge viene applicata alla lettera e il locale chiude i battenti». E pensare che quella «tecnica» dovrebbe essere la parte più semplice. L’impresa, rivela il direttore dell’Ufficio Italiano della Lega Musulmana Mondiale Mario Scialoja, è trovare i finanziamenti. Quando nel 1973 venne autorizzata la grande moschea romana di Monte Antenne, di cui Scialoja è stato a lungo l’anima, l’Italia concesse il terreno e i soldi arrivarono da Riad. In tutti gli altri casi sono i fedeli ad autotassarsi: «La maggior parte dei musulmani del nostro paese sono stranieri, versano quel che possono. Poi ci sono comunità più ricche come quella egiziana, che a Roma ha realizzato un bello spazio in viale dell’Esercito, o mecenati: per Monte Antenne un mio amico laico donò un milione di lire». Tempi aurei d’armonia democristiana. Allo Stato spettava l’onere politico, alla comunità musulmana quello economico. Oggi prevalgono tensioni. L’unica eccezione è la moschea Colle Val d’Elsa, appoggiatasi al Monte dei Paschi di Siena. Ma in modo halal, precisa il presidente dell’istituto culturale islamico di viale Jenner, a Milano: «La Banca non ha dato denaro un leasing, dato che il Corano considera il mutuo una forma d’usura». L’impasse è politico e il dialogo langue. Anche perché i musulmani sono divisi. Chi parla per loro? «Sarebbe già un bene stabilire chi prega per loro invece dei tanti imam fai da te senza formazione religiosa» chiosa Scialoja. Quello degli imam, le guide della preghiera, è un nodo critico. Generalmente si tratta di macellai o leader carismatici che s’inginocchiano alla Mecca davanti agli altri. Nessuno in Italia pensa a un albo dei pastori protestanti o valdesi, ma nell’era in cui qualcuno invoca Allah per distruggere l’Occidente può capitare di chiedere agli altri di pregare in italiano.