Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 08 Mercoledì calendario

Montecitorio, uno scranno per fare politica - In un libro intervista scritto con Claudio Sabelli Fioretti («L’uomo che non c’è», Aliberti editore), il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, ammise di aver fatto lo squilibrato: «E’ vero, facevo cose un po’ strambe

Montecitorio, uno scranno per fare politica - In un libro intervista scritto con Claudio Sabelli Fioretti («L’uomo che non c’è», Aliberti editore), il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, ammise di aver fatto lo squilibrato: «E’ vero, facevo cose un po’ strambe. Ma perché le facevo? Per farmi ascoltare dovevo fare follie, dovevo dire cose che avevano la forma della follia». Cossiga naturalmente parlava di quella mirabolante seconda metà del suo settennato nella quale era detto il picconatore, l’esternatore, si levava i sassolini dalle scarpe, e il Pci di Achille Occhetto promosse un impeachment che in paragone la guerra di oggi a Gianfranco Fini è forse una sassaiola. E in effetti Cossiga deviò parecchio dai rigidi doveri istituzionali - da vigile dello Stato - e si produsse in una spettacolare performance di politica-pop, vera e squisita entrée della Seconda repubblica. A Sabelli, Cossiga disse di aver infranto il protocollo consapevolmente, in nome di una ragione superiore: avvertire i palazzi che con il muro di Berlino era venuta giù una prassi durata dalla fine della Seconda guerra mondiale. E’ così: c’è sempre una ragione superiore. Anche Fausto Bertinotti, uomo che conosce le regole e ama santificarle, in un pomeriggio di fine legislatura (quella 2006-2008, in cui precedette Fini alla presidenza di Montecitorio) ammise a microfoni spenti di essere stato periodicamente costretto a derogare perché l’esecutivo non reggeva e il partito (Rifondazione comunista), provvisoriamente affidato a Franco Giordano, non era in grado di rispondere alle turbolenze del momento. E forse fu proprio Bertinotti, con una raggelante intervista nell’edizione serale del Tg1, ad annunciare la prossima dipartita del gabinetto di Romano Prodi: «Il malato ha preso un brodino», disse commentando un salvataggio in extremis al Senato. Non era già più nel solco della parrucchitudine istituzionale, e una nuova diagnosi era già pronta: «E’ il miglior governo morente», battuta cui non seppe rinunciare. Gira e rigira si tirano fuori i vecchi presidenti di Camera e Senato, per esempio lo stesso Cossiga, più spesso Nilde Jotti e Pietro Ingrao, e si tira fuori il loro aplomb per paragonarlo a certe sguaiataggini d’oggi. Ma è la Seconda repubblica - e le cause sono parecchie - ad aver cambiato le consuetudini. Il centrodestra ha sempre considerato Oscar Luigi Scalfaro un avversario travestito da arbitro. Nel gennaio del 1995, sentendo odore di ribaltone, Gianfranco Fini disse: «Scalfaro non è super partes». Lo disse in buona compagnia e con adeguato entusiasmo, ed è soltanto per fare un esempio. E Scalfaro, che tanto si addolorò per quella lunga campagna, si rifece almeno un poco giudicando niente meno che «fuorilegge» il modo di «fare politica» di Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera. Il primo era presidente della Camera, il secondo lo era del Senato (legislatura 2001-2006) ed entrambi, per motivi e con stili diversi, si proponevano da capopopolo. Molti ricorderanno della volta in cui Pera (settembre 2005) andò al Meeting di Comunione e Liberazione a dire no al «meticciato». Aveva scritto libri con il cardinale Joseph Ratzinger e quello del Senato gli era parso l’ottimo palcoscenico da cui proporsi come sacerdote degli occidentalisti anti-islamici. Casini, più concreto, da un certo momento in poi dovette sobbarcarsi il doppio lavoro e da una posizione così scomoda che si prese l’accusa di interventismo sia da Silvio Berlusconi sia da Prodi («Non è né presidente super partes né presidente dei rotocalchi», disse il capo dell’Unione). Per intenderci, Casini se ne usciva con frasi che ora ai frondisti finiani paiono trovate postmoderne: «Berlusconi ha un punto debole: non è ancora passato da un’alleanza carismatica a un’alleanza politica. E questo dovrebbe essere nell’interesse di Berlusconi» (Cortina, intervista pubblica con Enrico Cisnetto nell’agosto 2005). Alla fine si salvano in pochi, e non per caso sono i presidenti delle Camere nelle prime due legislature della Seconda repubblica: Irene Pivetti e Carlo Scognamiglio (1994-1996), Luciano Violante e Nicola Mancino (1996-2001). Gli algidi esempi erano troppo vicini, e così inattuali oggi che si riprova, vent’anni dopo, a sfiduciare un’alta carica dello Stato.