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 2010  settembre 08 Mercoledì calendario

Inamovibile per liberarlo dai ricatti - L’ennesima zuffa tra i poteri dello Stato ha un antefatto più remoto del discorso pronunziato da Gianfranco Fini a Mirabello

Inamovibile per liberarlo dai ricatti - L’ennesima zuffa tra i poteri dello Stato ha un antefatto più remoto del discorso pronunziato da Gianfranco Fini a Mirabello. Trae origine dalla voracità dei partiti politici italiani, il cui appetito - in questa seconda Repubblica, ancor più che nella prima - ormai supera quello di Pantagruel. E allora facciamo un esercizio storico, dato che la memoria non è precisamente la nostra qualità migliore. Ai tempi della Democrazia Cristiana, Montecitorio veniva offerto in appannaggio a un esponente dell’opposizione: vi si avvicendarono Ingrao, la Iotti (rimasta in sella 13 anni di fila, un record), Napolitano. Nel 1994, con il successo elettorale di Silvio Berlusconi, la seconda Repubblica riceve il suo battesimo, e a quel punto la nuova maggioranza occupa tutti i posti in tavola, compresa la poltrona di Montecitorio. La sinistra strepita, ma nel 1996 - quando arriva il suo momento - s’adegua volentieri: così Violante subentra alla Pivetti. E però non basta, il cibo sul piatto non è mai abbastanza. Dal 2001 in poi la presidenza della Camera entra negli accordi elettorali, tant’è che regolarmente vi s’insedia - in cambio d’uno o due ministri in meno - il leader del secondo partito della coalizione vittoriosa: Casini, poi Bertinotti e adesso Fini. Una nuova convenzione, accettata (o meglio digerita) sia a destra che a sinistra. Dice: ma Fini fa politica, si comporta da capopartito. E che, non lo sapevi quando l’hai votato? Ri-dice: ma la politica di Fini è una requisitoria contro l’operato del governo. E quale mai sarebbe la notizia? Nel dicembre 2007 Bertinotti paragonò il gabinetto Prodi a Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente»; e per sovrapprezzo aggiunse che quell’esperienza di governo era stata un fallimento. Eppure nessuno chiese la sua testa, nessuno pensò di scomodare addirittura il Quirinale, come s’accingono a fare Bossi e Berlusconi. E Napolitano? Secondo loro è il nuovo Erode, deve saziarne l’appetito offrendogli la testa di san Gianfranco decollato. Siccome non può farlo (il Capo dello Stato non gestisce le assemblee parlamentari, altrimenti andrebbe a farsi friggere la separazione dei poteri), c’è il rischio che domani qualche Salomè delusa pretenda pure la sua testa. Ecco infatti dove ci ha condotto la bulimia dei partiti: a una rissa permanente fra i vari commensali. Sarebbe stato meglio lasciare in piedi la vecchia regola non scritta, consegnando Montecitorio all’opposizione; non è andata così, e allora per venirne fuori dobbiamo chiedere soccorso alla regola scritta. È giusta la pretesa che il presidente della Camera sia allineato come un soldatino al presidente del Consiglio? No, è un fossile giuridico. Andava così nell’Ottocento, quando il primo si dimetteva contemporaneamente alla caduta del governo (Biancheri nel 1876, Farini nel 1879, e via elencando), o quando si dimetteva il presidente del Consiglio se la Camera bocciava il suo candidato (Menabrea nel 1869, De Pretis nel 1878, Zanardelli nel 1902). Ma già da Crispi in poi il presidente della Camera non vota, per marcare la propria distanza dal governo. Diventa un organo imparziale, nel quale si rispecchia l’intera assemblea. E siccome il Parlamento ha una funzione di controllo sull’esecutivo, il suo presidente finisce giocoforza per esercitarsi in un ruolo dialettico, anche a costo d’alzare un po’ la voce. Da qui le rampogne di Ingrao contro il governo Andreotti (gennaio 1977), quelle di Nilde Iotti contro il governo De Mita (marzo 1989), giù giù fino all’altro ieri. A questo punto tuttavia s’affaccia la seconda imputazione a carico del presidente Fini: non rappresenti il governo (e va bene), ma neppure più la Camera. È il capo d’accusa più insidioso, perché ne revoca in dubbio l’autorità, la legittimazione. Sennonché questo processo non si può celebrare, dato che i regolamenti parlamentari escludono la mozione di sfiducia verso il presidente d’assemblea. Lo fanno per liberarlo dai ricatti della maggioranza, per renderlo appunto indipendente, e perciò imparziale. Magari non sarà una buona regola, ma intanto abbiamo questa. Domanda: e se invece Fini fosse messo ai voti? Con l’aria che tira, per Berlusconi c’è il concreto rischio che un’altra maggioranza gli rinnovi la fiducia. Autogol.