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 2010  settembre 07 Martedì calendario

I GIUDICI: NON E’ REATO ESSERE AMICI DI TERRORISTI

Il «brigatista figlio d’ arte», come si affrettarono a chiamarlo all’ indomani dell’ arresto, non è un brigatista. O almeno non ci sono prove che lo sia. Ecco perché la corte di cassazione lo ha scarcerato, dopo che il tribunale della libertà lo aveva tenuto in cella ma dimezzando le accuse, sgravandolo dalla banda armata e lasciando l’ associazione sovversiva. Manovra azzardata, che è servita ai giudici «di legittimità» a rispedire a casa sua Manolo Morlacchi - figlio di Pierino, uno dei fondatori delle Brigate rosse insieme a Renato Curcio e Mara Cagol all’ inizio degli anni Settanta - quarant’ anni compiuti lo scorso maggio in prigione dov’ è rimasto da gennaio a giugno del 2010. Stessa sorte è toccata al suo amico Costantino Virgilio, che come Morlacchi e altri sette imputati saranno processati a partire dal prossimo 16 settembre. Sono accusati di aver ridato vita alle Brigate rosse, lo stesse che già s’ erano ripresentate sulla scena uccidendo tra il 1999 e il 2003 i giuslavoristi Massimo D’ Antona e Marco Biagi e il sovrintendente di polizia Emanuele Petri. Volevano rilanciare la strategia della lotta armata in Italia, sostiene l’ accusa, «ricalibrandola in relazione alla mutata realtà storica, politica, sociale ed economica»; per questo il gruppo si stava organizzando, e aveva già un arsenale di armi a disposizione, dopo aver realizzato un fallito attentato a una caserma di Livorno nel 2006. A metà del 2009 erano stati presi cinque presunti neo brigatisti, tra cui uno che probabilmente aveva avuto rapporti con Nadia Lioce e Mario Galesi (responsabili degli omicidi D’ Antona, Biagi e Petri) e dai computer erano saltate fuori tracce di programmi eversivi e «risoluzioni strategiche»; a gennaio di quest’ anno li avevano seguiti in carcere Morlacchi e Virgilio, accusati di essere in combutta con i primi arrestati. Adesso però la Cassazione ha ridimensionato il quadro accusatorio nei loro confronti, basato soprattutto su frequentazioni, contatti giudicati sospetti, presunte riunioni politiche che si svolgevano sempre con le stesse modalità, programmi informatici criptati. Ma niente di tutto ciò, ha stabilito la corte suprema, è sufficiente per dimostrare l’ adesione a un gruppo eversivo. «Non risulta in alcun modo provato qualche intervento di carattere operativo, o anche solo di disponibilità o di supporto, da parte dei due indagati alle imprese criminose attuate o progettate dal gruppo», hanno scritto i giudici. C’ erano rapporti tra Morlacchi e Virgilio e gli altri sospetti brigatisti arrestati in procedenza, ma sostenendo che erano finalizzati a propositi eversivi «gli inquirenti non sono andati al di là di semplici illazioni». E ancora: «È rimasta una mera affermazione, priva di concreti elementi di supporti, la loro partecipazione a incontri con esponenti del sodalizio definiti "di organizzazione", dei quali non è stato possibile accertare quale fosse l’ oggetto». Né possono essere considerata una prova le «particolari cautele» che Morlacchi Vigilio utilizzavano per incontrare gli amici accusati di essere dei neo brigatisti, «essendo queste comunque per ovvie ragioni imposte come necessarie anche agli estranei che siano ammessi a entrare con i membri di un’ associazione terroristico-eversiva». Insomma, essere amici di presunti terroristi, o avere con loro relazioni caratterizzate da modalità che possono apparire ambigue, non significa essere a propria volta dei terroristi. Anche perché, ricordano i giudici citando la pentita delle «nuove Br» Cinzia Banelli, capita che le organizzazioni eversive avviino «prudenti e laboriose iniziative i reclutamento in aree politicamente omogenee, che possono evolvere nella militanza ma anche rimanere per lungo tempo a livello di rapporto dialettico, o interrompersi».
Giovanni Bianconi