Camille Eid, Avvenire 8/9/2010, 8 settembre 2010
MINORENNI O MADRI DI FAMIGLIA: LE SAKINEH CHE IL MONDO IGNORA
Il caso di Sakineh non è isolato. Attualmente in Iran risultano pendenti, secondo un elenco pubblicato dal Comitato internazionale contro la lapidazione, ben venti sentenze di morte per lapidazione, tre delle quali riguardano uomini. Le «altre Sakineh» portano i nomi di Maryam, Zeynab, Robabe, Ferdoas, Ashraf, Hajar, Sarimeh, Khanom, Masumeh e altri ancora. Alcune sono giovanissime, come la diciannovenne Azar Bagheri, che aspetta nel braccio della morte nel carcere di Tabriz, lo stesso in cui si trova Sakineh, altre sono meno giovani, come Kheyrieh Valania, 42 anni, perseguitata dall’incubo delle pietre dal 2002, nella prigione di Ahvaz.
Quello di Azar è un caso emblematico. Aveva solo 15 anni quando fu costretta a sposarsi con un uomo più anziano. Oggi, dopo quattro anni in carcere, si prepara alla sua fine per un adulterio che sarebbe stato compiuto durante il matrimonio. La condanna non poteva essere eseguita fin quando non avrebbe raggiunto la maggiore età. Così per gli ultimi quattro anni Azar è stata costretta a deperire nel braccio della morte, mentre i giudici aspettavano che raggiungesse la fatidica soglia anagrafica dei 18 anni. L’attivista per i diritti umani iraniani Mina Ahadi ha detto che la ragazza è stato perfino sbeffeggiata: sottoposta a due false lapidazioni. In due occasioni sarebbe stata portata fuori dalla sua cella e sepolta fino alle spalle nel cortile del carcere di Tabriz, e preparata ad essere bersagliata a morte con le pietre.
Il caso più conosciuto riguarda Maryam Ghorbanzadeh, anch’essa detenuta nel carcere di Tabriz, nel nord-ovest dell’Iran. In questo caso come per altre detenute i legali si sono rivolti alla magistratura chiedendo quello che solo a denti stretti si può definire un atto di clemenza: sostituire la lapidazione con la fustigazione. Una tortura non letale al posto di una tortura che provoca morte sicura. Una possibilità non remota. Le autorità iraniane, negli ultimi anni, per 13 volte hanno rivisto sentenze di donne condannate alla lapidazione. È accaduto ad esempio per Kobra Babaei, liberata dopo avere subito cento frustate. Il Comitato internazionale contro le esecuzioni, una Ong che si batte contro la pena capitale nel mondo, ha rivelato che la spina dorsale di Kobra è stata danneggiata dai colpi e che lei ora ha difficoltà a camminare. I suoi figli dicono che il dolore straziante e gli effetti delle frustate hanno reso la vita della loro madre estremamente difficile. Poi c’è il caso di Ashraf Kalhori, madre di quattro figli, che ha oggi 40 anni. Ashraf è stata riconosciuta colpevole dell’uccisione del marito e di rapporti extraconiugali, e quindi condannata a morte per lapidazione. La legale di Ashraf Kalhori, che ha presentato nel 2006 un’istanza di pentimento in nome della sua assistita, non crede più nell’efficacia delle fatwa del 2003 con cui alcuni ayatollah iraniani avevano chiesto ai giudici di non emettere sentenze di lapidazione e di sostituire quelle emesse con pene alternative. «Non bastano le fatwa per fermare questa pratica barbara e medievale», ha affermato Shadi Sadr, avvocato impegnata nella lotta per i diritti delle donne. «I singoli giudici non sono obbligati a rispettare le fatwa, per fermare le lapidazioni bisogna cambiare la legge. Le associazioni femminili e i gruppi femministi – ha aggiunto – stanno lavorando a una vasta campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica allo scopo di costringere il governo a una moratoria delle sentenze di lapidazione».