Vincenzo Comito, www.sbilanciamoci.info, 14 e 20/7/2010, 20 luglio 2010
INCHIESTA SULLE GRANDI IMPRESE: ENI
(da www.sbilanciamoci.info)
Il business del petrolio e del gas ha mostrato negli ultimi anni dei mutamenti di grande rilievo, mentre ha anche confermato alcune tendenze consolidate da tempo.
Intanto bisogna registrare il fatto che le grandi compagnie petrolifere internazionali non sono più politicamente potenti come una volta, in particolare nei paesi che possiedono le maggiori quantità di idrocarburi. Tra l’altro, le compagnie nazionali, originarie dei paesi emergenti, controllano ormai all’incirca il 90% delle riserve mondiali (Bezat, 2010). Si pensi, ad esempio, alla Petrochina, oggi la prima impresa del mondo per capitalizzazione di borsa – le prime 10 imprese del settore petrolifero sono a capitale pubblico e fanno capo ai paesi emergenti- , o all’enormità delle dimensioni della Aramco saudita - che da sola possiede riserve di idrocarburi pari a 15 volte rispetto a quelle controllate dalla Exxon-, o anche alla brasiliana Petrobras e alla russa Gazprom. Le stesse compagnie statali fanno poi sempre più concorrenza a quelle occidentali sui mercati mondiali. Il potere residuo delle major risiede nella loro capacità di governare le tecnologie più avanzate del settore e nella loro rilevante forza finanziaria; ma ambedue tali atout tendono a perdere di peso con il tempo. La caduta progressiva dell’egemonia politica dei paesi sviluppati su quelli petroliferi permette a questi ultimi anche di rovesciare progressivamente i rapporti di forza a livello di divisione dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti, spostandoli ormai sempre di più a loro favore.
Le imprese del Nord, per far fronte a tali sviluppi, tendono, tra l’altro, a diversificare le loro attività, concentrandosi sui settori dell’estrazione in acque profonde, in quello delle sabbie bituminose ed anche nel nucleare, nell’etanolo e, più in generale, nei biocarburanti.
Ma, in particolare negli ultimi tempi, esse sembrano sempre più interessate al business del gas in generale e a quello dello shale gas in particolare. Sino a poco tempo fa queste ultime riserve, note da tempo, erano molto difficili da sfruttare sia dal punto di vista tecnologico che del livello dei costi, ma tali problemi ora sono stati in gran parte superati e gli Stati Uniti sono in breve diventati il primo produttore mondiale di gas (Rachman, 2010). Ma gli ambientalisti storcono e a ragione il naso, perché le sostanze chimiche che devono essere usate per estrarre dalle rocce il gas inquinano le falde acquifere e comunque le tecnologie impiegate richiedono grandi quantità di risorse idriche sempre più rare.
Più in generale, le imprese del settore si stanno rivolgendo sempre di più allo sfruttamento dei giacimenti di gas. Questo perché il petrolio è sempre più difficile da trovare per ragioni geologiche ed anche politiche e perché il gas sta anche diventando più facile da sviluppare di fronte alla crescente complessità della gestione del petrolio. Ora anche il disastro del Golfo del Messico tenderà presumibilmente ad incrementa i costi dei controlli sul settore. Per quanto riguarda il business del gas, tra l’altro, le compagnie nazionali dei paesi emergenti hanno ancora molto bisogno di quelle occidentali, mentre il suo mercato appare anche meno volatile di quello del petrolio. Si afferma da parte di molti esperti del comparto che il gas è meno inquinante del carbone e dello stesso petrolio e questo appare vero per quanto riguarda direttamente il suo utilizzo finale. Ma va segnalato che la sua manipolazione, attraverso in particolare le fuoruscite di prodotto durante il processo di estrazione e attraverso le strutture di trasporto e distribuzione, contribuisce ad aumentare il riscaldamento globale del pianeta (Shah, 2004).
La crisi sta nel frattempo contribuendo a cambiare la geopolitica del petrolio. Simbolicamente nel 2009 l’Arabia Saudita ha esportato più petrolio verso la Cina che non verso gli Stati Uniti (Mouawad, 2010); più in generale, nel mondo la crescente importanza della Cina e dell’India rappresentano un cambiamento molto importante anche nel settore. Sempre l’Arabia Saudita, che sta sviluppando una rete di raffinerie in Cina, ha smesso di praticare uno sconto di un dollaro sul prezzo del petrolio verso gli Stati Uniti rispetto a quello praticato al resto del mondo. La stessa Cina sta sviluppando una fittissima rete di intese con quasi tutti i principali paesi produttori e tutte le imprese del big oil corrono a Pechino.
La prospettiva del peak-oil
Nonostante queste novità, non scompare per molti la prospettiva del cosiddetto peak oil, la previsione cioè che, al massimo entro pochi anni, la produzione di petrolio cominci a declinare e comunque ad essere progressivamente insufficiente rispetto ad una domanda che cresce in media dell’1,2% all’anno (Rava, 2010). Su questo tema, che appare comunque controverso, da una parte abbiamo una posizione come quella della BP, che, nel suo rapporto annuale dal titolo Annual Statistical Review of World Energy, afferma che le riserve di petrolio a livello mondiale corrispondono oggi a circa 40 anni di consumi, mentre contemporaneamente i progressi nelle tecnologie del settore, che permettono di estrarre il petrolio a profondità sempre più elevate e a recuperare una percentuale crescente di idrocarburi da ogni giacimento, permetteranno di trovarne e di produrne molto di più.
Dall’altra, invece, troviamo ad esempio le analisi dell’ ITPOES britannico (ITPOES, 2010) che afferma che l’ oil crunch sarà peggiore del credit crunch e che si verificherà una caduta nella produzione di petrolio al massimo per il 2015. Anche una ricerca del settore militare statunitense (Macallister, 2010) e varie altre fonti qualificate indicano che entro pochi anni ci potrebbe essere una rilevante carenza del prodotto.
Quale che sia la visione più corretta sul tema, appare in ogni caso indubitabile che le nuove fonti disponibili saranno sempre più costose, sporche e insicure e che alla fine, per continuare ad utilizzare il petrolio, bisognerà arrivare a pagarlo anche 200 dollari al barile e ad accettare un livello di inquinamento spinto del pianeta.
Quello che non cambia
Intanto, il contributo delle fonti di energia fossile alla distruzione del pianeta, sia nelle fasi della esplorazione ed estrazione da una parte, che in quelle della raffinazione e della combustione dall’altra, appare da tempo molto rilevante e il caso attuale della BP potrebbe essere, da questo punto di vista, un’opportunità per contenere, se non per fare cessare, tale scempio in un settore da tempo fuori controllo e pieno di manager e tecnici irresponsabili. Per altro verso, la fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico non appare un disastro naturale, ma una conseguenza della drastica riduzione nei livelli di regolamentazione e controllo nel campo dell’energia, come in quello della finanza, avviata nell’era Reagan-Tathcher (Leader Newstatesman, 2010).
Al di là comunque del caso della BP, i danni ambientali causati da big oil si fanno da tempo sentire dovunque, dalla Nigeria – paese nel quale le fuoruscite di petrolio sono un fatto consolidato da decenni e dove ogni anno l’area del delta del Niger deve sopportare uno spill pari a quello della Exxon Valdez -, al Kazakhstan – dove le compagnie internazionali hanno costretto migliaia di persone a lasciare le loro case per le emissioni altamente dannose provocate dalle loro attività (Wachman, Stibbs, 2010) -, alla Colombia, all’Ecuador, al Canada, tutti paesi nei quali le grandi del settore, compresa in diversi casi la nostra Eni, sono accusate di disprezzo delle comunità locali, dei diritti umani delle popolazioni locali e dell’ambiente circostante in cui esse operano.
D’altro canto, cresce nel mondo, come già sottolineato, l’angoscia per la possibile carenza di risorse energetiche nel prossimo futuro. Si può uscire da questo dilemma tra problemi ambientali e carenza di petrolio e gas solo se si investe adeguatamente nel campo dei risparmi energetici e dell’energia verde, attività sulle quali la stessa Eni non sembra in alcun modo entusiasta di investire, come del resto sembra aver deciso l’altra grande compagnia energetica nazionale, l’Enel, ambedue in perfetta sintonia sul tema con il nostro irresponsabile governo.
Un elemento ulteriore del quadro, per quanto riguarda l’Italia, riguarda il fatto che il nostro paese appare quello più dipendente energeticamente dall’estero fra quelli industrializzati; esso deve importare l’85% del proprio fabbisogno, con conseguenze molto importanti sulla bilancia commerciale del paese. Le previsioni per il 2010 sono, ad esempio, di un esborso in merito pari a 53 miliardi di euro. La rete distributiva dei carburanti è farraginosa, antiquata e costosa. Così da noi ci sono 22.800 benzinai contro ad esempio i 12.700 della Francia (Occorsio, 2010).
I risultati economici del settore e il suo modello di business
Nonostante tutte queste difficoltà, il settore delle grandi imprese energetiche internazionali, grazie anche alla sua presa oligopolistica sui mercati, ha goduto negli ultimi dieci anni di una salute economica invidiabile, con profitti anche clamorosi. Si pensi, per quanto riguarda soltanto il caso della ExxonMobil, che essa ha registrato nel 2008 profitti al netto delle tasse per 45,2 miliardi di dollari –la cifra più grande mai ottenuta da una qualsiasi impresa nella storia-, contro “soltanto” 25,3 miliardi nel 2004, che essa ha inoltre generato, sempre nel 2008, dei cash flow netti di 65,7 miliardi, che alla fine dello stesso anno possedeva liquidità per 31,4 miliardi, senza avere praticamente debiti e che registrava anche dei ritorni elevatissimi sul capitale netto e sul capitale investito. Va anche segnalato che la società investiva una parte preponderante dei suoi utili nel riacquisto delle azioni proprie.
Ora la crisi sembra mordere e il 2009 ha visto una rilevante contrazione degli utili della stessa società come delle altre grandi imprese produttrici; nel 2010, in relazione alla crescita dei prezzi del petrolio, tali profitti sembrano comunque in ripresa.
I criteri di successo di una grande impresa in un settore in cui si continua a nuotare in un oceano di denaro, si concentrano oggi, come abbiamo già parzialmente ricordato, da una parte sulla capacità di influenzare i governi, sia dei paesi di origine delle stesse imprese che di quelli che possiedono i giacimenti (indebolitasi molto la leva politica, è diventata proporzionalmente più importante nei paesi petroliferi quella della corruzione, che raggiunge punte inusitate nel settore), dall’altra sul possesso di tecnologie di tipo avanzato per la ricerca, esplorazione e sfruttamento dei giacimenti, nonché su di una rilevante capacità finanziaria –per sviluppare il grande giacimento di Kashagan, in Kazahkstan, ci vorrà alla fine probabilmente un investimento di 100 miliardi di dollari-; non bisogna poi trascurare, tra gli altri criteri da considerare, la presenza di una adeguata diversificazione delle attività, sia a livello geografico che di tipologia progettuale, nonché una elevata padronanza delle tecniche di project management, di quelle di tipo organizzativo come di quelle di tipo finanziario. Ricordiamo infine che, per far fronte ad una parte almeno dei rischi presenti nel settore, le grandi imprese tendono, in ogni nuovo progetto da intraprendere, a creare tra di loro delle joint-ventures anche abbastanza numerose come numero dei partecipanti e nelle quali vengono inserite anche, di volta in volta, bon gré, mal gré, le imprese degli stessi paesi petroliferi.
(prima parte, 14/7/2010)
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Il gruppo Eni, che è oggi presente in 77 paesi, opera nei settori dell’exploration & production, il cosiddetto up-stream, cioè nella ricerca e estrazione di idrocarburi, petrolio e gas, il suo business primario, da dove trae la parte più consistente dei suoi profitti; nel gas & power, ovvero nel trading, trasporto e distribuzione di gas, nonché della produzione e distribuzione di energia elettrica, business che comunque fornisce una parte di utili rilevante e nel quale, in genere, non sono presenti gli altri produttori; nella petrolchimica, area ormai marginale ed in perdita, ma intorno alle cui attività si sono combattute nei decenni passati tante battaglie imprenditoriali, politiche, giudiziarie; nell’engineering, con la controllata Saipem; infine, nel settore della raffinazione & marketing dei prodotti petroliferi, attività ormai anch’essa marginale.
La presenza in tutti questi business fornisce al gruppo, secondo le dichiarazioni dei suoi dirigenti, un portafoglio di attività abbastanza diversificato, che lo protegge, almeno in parte, dagli avversi andamenti della congiuntura nel settore primario.
Così ad esempio nel 2007, prima della crisi, l’exploration & production forniva 6,3 miliardi di euro di profitti, il gas & power 3,1, l’engineering 0,7; nel 2009 il contributo del primo settore era crollato a 3,8 miliardi, a causa della crisi, ma il secondo reggeva il colpo, fornendo 2,9 miliardi, il terzo era persino cresciuto a 0,9 miliardi; così gli ultimi due comparti avevano insieme attenuato lo scivolone del primo.
Si approfondisce il processo di multinazionalizzazione del gruppo, via obbligata per la crescita nel settore. Oggi il peso dei paesi africani nelle attività della società si colloca intorno al 50% del totale, anche se nell’area va crescendo la parte dei paesi nuovi rispetto alle presenze tradizionali in Algeria, Egitto, Libia. In prospettiva, dovrebbe aumentare la quota dell’Asia e del Medio Oriente, con l’entrata in produzione, nei prossimi anni, dei grandi giacimenti del Kazahkstan e dell’Iraq, nonché quella dell’America Latina, con l’avvio delle nuove iniziative in Venezuela. Ma anche le attività russe appaiono promettenti.
L’Eni è la prima società italiana in termini di fatturato e di utili. Le cifre mostrano come l’andamento dei profitti, in genere molto elevati, sia abbastanza legato a quello dei prezzi del petrolio sui mercati. Mentre il fatturato di gruppo risultava uguale a 86,1 miliardi di euro nel 2006 e a 87, 2 miliardi nel 2007, ma scendeva a 83, 2 nel 2009, gli utili netti erano pari a ben 9,2 miliardi di euro nel 2006, salivano a 10,0 nel 2007, mentre crollavano a 4,4 nel 2009, con un andamento in linea con quelli delle altre imprese del settore. Le cifre mostrano anche, d’altro canto, come gli utili abbiano a che fare in primis con il controllo oligopolistico dei mercati e meno con le capacità gestionali delle singole imprese.
Sul fronte finanziario va registrato nel 2009 un aumento nel livello di indebitamento di circa il 25%. In generale, si è trattato comunque di un anno deludente per l’azienda; i portavoce del gruppo sottolineano peraltro come le prospettive economiche e finanziarie di medio-lungo termine siano invece molto positive, in particolare con la prossima entrata in produzione di alcuni grandi giacimenti in Kazakhstan, Venezuela, Iraq. Il rischio è però che l’avvio di tali iniziative slitti in misura rilevante nel tempo, come è già successo ripetutamente nel caso almeno del primo paese con il progetto Kashagan, con conseguenze che potrebbero essere di difficile gestione.
Gli analisti della Goldman Sachs valutano comunque che la società, nonostante le nuove iniziative sopra indicate, avrà qualche difficoltà nel continuare a sostituire le sue riserve e dovrà fare presto altri investimenti per trovare nuovi giacimenti.
All’interno del gruppo opera la Saipem, che è specializzata nel settore dei servizi alle imprese del settore e la cui attuale dimensione in termini di fatturato è pari a circa 10,3 miliardi di euro per il 2009. Come abbiamo già sottolineato, Il business presenta in genere un ciclo economico temporalmente differente da quello petrolifero. Così quest’ultimo comparto ha visto un sostanziale calo dei profitti in relazione alla crisi economica, mentre la Saipem ha registrato una sostanziale tenuta, per il fatto che nel 2009 sono stati portati avanti lavori largamente acquisiti negli anni precedenti. La situazione potrebbe invece invertirsi nel 2010. In ogni caso le prospettive dell’impresa sembrano abbastanza positive, almeno nel breve-medio termine.
Nel giugno del 2010 l’amministratore delegato del gruppo, Paolo Scaroni, ha presentato le strategie di sviluppo all’orizzonte 2013. Mentre egli ha confermato gli obiettivi di produzione di 2 milioni di barili estratti al giorno per quell’anno – oggi siamo intorno agli 1,8 milioni di barili, livello sostanzialmente immutato da alcuni anni -, traguardo il cui raggiungimento è stato già rimandato nel tempo alcune volte, ha indicato tra gli obiettivi operativi che la società intende raggiungere una rilevante crescita del volume di attività per linee interne, senza acquisizioni di rilievo, ha confermato la struttura organizzativa della società che prevede l’integrazione tra oil & gas, ha sottolineato infine che il gruppo mira allo sviluppo di grandi giacimenti, nei quali è possibile raggiungere significative economie di scala.
I rapporti con la politica
Sono certamente lontani i tempi di Mattei, che aveva stretto rapporti molto aperti con alcuni paesi produttori, ai quali accordava condizioni molto più favorevoli di quelle “di mercato”, mentre manteneva le distanze dalle sette sorelle. Mattei dettava poi, nella sostanza, la linea politica ai governi del nostro paese. Oggi qualsiasi differenza di trattamento dei paesi produttori appare cancellata, i rapporti con le altre major del settore sono molto cordiali, quasi intimi e la società intreccia con loro fittissime joint-ventures. Lontani sembrano anche i tempi di “mani pulite”, quando, tra l’altro, si scoprì che la società era uno dei centri principali del sistema corruttivo nazionale, avendo tra l’altro messo in piedi una fittissima rete di finanziarie – circa 200 -, per una parte consistente con scopi non propriamente legati alla gestione del business, con i fatti spiacevoli che ne erano seguiti.
I legami con la politica in Italia sono oggi comunque molto stretti, anche se in parte almeno rovesciati per quanto riguarda i rapporti di forza tra i due soggetti; sia il presidente che l’amministratore delegato della società sono degli intimi di Silvio Berlusconi. Anche le relazioni politiche e tecniche con paesi come la Libia, il Kazakhstan, la Russia, appaiono molto cordiali, anche in relazione all’affinità nello “stile di gestione” degli affari pubblici del nostro presidente del consiglio con gli attuali reggenti dei paesi citati. La società sottolinea, per quanto riguarda l’Italia, come nell’ultimo periodo le riunioni dei suoi dirigenti con il personale della Farnesina abbiano assunto una cadenza mensile; il nostro ministero degli esteri è in effetti diventato un fornitore importante di servizi all’azienda.
Un caso come quello del gasdotto Southstream, un progetto che dovrebbe portare rilevanti quantità di gas dalla Russia verso l’Europa occidentale, facendo nella sostanza concorrenza ad un progetto della Comunità Europea, e di cui sono capofila Eni e Gazprom, mostra comunque l’ampia autonomia della politica estera dell’Eni da quella “atlantica” e da quella europea, autonomia apparentemente non vista benevolmente dalla stessa Casa Bianca.
Il lavoro e le imposte
Un aspetto rilevante della gestione Eni, così come di quella delle altre imprese del settore, è costituito dallo scarso peso del fattore lavoro sul totale dei costi aziendali. Considerando anche le remunerazioni dell’alta dirigenza, in complesso il costo del lavoro nel gruppo pesa per poco più del 4% sul fatturato e comunque molto meno dei profitti. Così, ad esempio, nel 2007 tali costi, pari in totale a 3,8 miliardi di euro, rappresentavano appena il 4,35% del fatturato, soltanto il 35% dei profitti netti e il 19% di quelli lordi, mentre l’azienda pagava anche 9,2 miliardi di euro di tasse sugli utili, una cifra pari a circa due volte e mezzo lo stesso costo del lavoro.
Con questi numeri, l’Eni è inoltre, di gran lunga, il primo contribuente italiano considerando le imposte sugli utili, ma esso fornisce ogni anno anche un significativo contributo alla stato sia attraverso la distribuzione dei dividendi, dal momento che il settore pubblico mantiene una quota del 30% nel capitale della società –più o meno come nei casi di Finmeccanica ed Enel; un altro 10% è posseduto dalla stessa azienda, ciò che rende abbastanza difficile una possibile scalata al titolo-, sia inoltre, ovviamente, attraverso la enorme raccolta alla pompa delle imposte indirette che gravano sugli acquisti dei carburanti.
Sempre in tema di lavoro, appare rilevante segnalare come una parte consistente dei dipendenti dell’Eni, come delle altre imprese del settore, sia costituita, nei vari cantieri in giro per il mondo, da un’armata di mercenari, che vagano spesso da un’impresa all’altra, alla ricerca continua di migliori condizioni, in un mercato in cui di frequente prevale l’offerta di lavoro da parte delle imprese sulla domanda. Gli espatriati anglosassoni costituiscono la fetta più consistente delle fasce dirigenziali e operative di livello elevato, mentre quelli dei paesi più poveri costituiscono gran parte della manovalanza.
La situazione organizzativa e ambientale
Nel settore il gruppo Eni viene considerato tra quelli più deboli come capacità di gestione interna. Tra le diverse possibili manifestazioni di tale fenomeno si possono segnalare la tradizionale minore abilità nel controllo dei costi della società italiana e alcune rilevanti debolezze organizzative, che sono, ad esempio, emerse nella gestione del progetto Kashagan in Kazakhstan e che hanno anche contribuito a portare ad una perdita di peso della società nel governo di un progetto così importante. Le ragioni di tali debolezze devono forse fare riferimento sia alle più generali e storiche carenze delle grandi imprese nazionali su questo fronte, sia, nel caso specifico dell’Eni, alla cultura tradizionalmente tecnico-ingegneristica che pervade ancora oggi l’impresa e che il contatto quotidiano, nelle varie joint-ventures, con le imprese più avanzate del settore riesce solo molto lentamente a far cambiare.
Un aspetto rilevante della gestione dell’azienda appare quello legato alla sostenibilità ambientale delle sue attività. L’impresa, nei documenti ufficiali, nonché nei discorsi dei suoi massimi dirigenti, non manca di solito di segnalare la sua vocazione ad una gestione sostenibile.
Ma, da una parte, il gruppo è uno di quelli che si è impegnato di meno, nei fatti, a sviluppare attività nel campo delle energie rinnovabili e del risparmio energetico. Dall’altra, come abbiamo già accennato, esso non sembra aver mancato di contribuire negli scorsi anni a diversi problemi ambientali in giro per il mondo, dal Kazakhstan all’Ecuador.
Scorporo del gas e pratiche monopolistiche
Da qualche tempo un fondo di investimento statunitense, quello Knight Vinke, insiste per la separazione e il collocamento in due unità societarie separate delle attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi da una parte, di quelle di trading, trasporto e distribuzione di gas dall’altra, sostenendo che in tal modo, almeno dimezzando tra l’altro il rilevante debito che fa capo alla società e annullando il cosiddetto conglomerate discount che i mercati applicano alle imprese diversificate, il prezzo delle azioni e il valore della società, oggi fortemente sottovalutati rispetto alle altre imprese del settore, aumenterebbe di circa il 50%.
L’Eni e commentatori vicini alla società –si veda, ad esempio, Colitti, 2010- sottolineano invece come esistano importanti sinergie produttive tra i due settori, mentre la presenza anche nel gas conferirebbe al gruppo un alto potere negoziale nei confronti dei paesi produttori e mentre, in caso di scorporo dello stesso, la parte petrolifera dell’Eni sarebbe indebolita dalla mancanza dei flussi di cassa provenienti dal primo settore; si sottolinea anche la strategicità crescente dello stesso metano.
In ogni caso, nel settore della distribuzione di gas la società si pone per il 2013 l’obiettivo di una quota di mercato del 22% in Europa, quota oggi un po’ inferiore nel continente, ma molto più elevata in Italia, dove essa gode di una situazione quasi monopolistica, con le rendite relative, mentre le authority di controllo italiana ed europea insistono per allentare in qualche modo tale situazione. Dopo una pronuncia in sede comunitaria, in specifico su Snam rete gas pende una decisione del governo italiano che dovrebbe costringere la società a vendere il settore o a semplicemente scorporarlo dal punto di vista organizzativo.
Che il problema possa avere qualche fondamento è anche indicato dal fatto che l’Unione europea, mentre ha imposto la cessione di alcuni gasdotti internazionali nel Nord Europa, ha parallelamente avviato una procedura antitrust contro il gruppo, sospettato di comportamento anticompetitivo nei confronti dei suoi potenziali concorrenti.
Testi citati nell’articolo
- Bezat J.-M., Les compagnies pétrolières ont une puissance relative, www.lemonde.fr, 2 giugno 2010
- Colitti M., Perché bisogna impedire lo “sfascio” dell’Eni proposto da Knight Vinke, Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2010
- ITPOES, The oil crunch, Londra, febbraio 2010
- Leader, The deepwater disaster is a chance to bring big oil to heel, www.nestatesman.com, 17 giugno 2010
- Macallister T., US military warns oil output may dip causing massive shortages by 2015, www.guardian.co.uk, 11 aprile 2010
- Mouawad J., China’s growth shifts the geopolitics of oil, www.nyt.com, 19 marzo 2010
- Occorsio E., Benzina, il grande imbroglio, La Repubblica, affari & finanza, 3 maggio 2010
- Rachman G., Shale gas will change the world, www.ft.com, 24 maggio 2010
- Rava C., Le colonne d’Ercole del petrolio, www.sbilanciamoci.info, 7 aprile 2010
- Shah S., Crude, trad. it. Oro nero, breve storia del petrolio, Mondadori, Milano, 2005
- Wachman R., Stibbs J., Anger grows across the world at the real price of “frontier oil”, www.guardian.co.uk, 20 giugno 2010
(seconda parte, 20/7/2010)
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Vincenzo Comito ha lavorato per molti anni nell’industria (gruppo Iri,Olivetti, movimento cooperativo); attualmente consulente aziendale e docente di finanza aziendale presso l’Università di Urbino; tra le sue pubblicazioni si segnalano "Storia della finanza d’impresa", Utet Libreria, Torino, 2002 e "L’ultima crisi: la Fiat tra mercato e finanza", Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2005.