Lorenzo Fioramonti, www.sbilanciamoci.info, 1/9/2010, 1 settembre 2010
LE IPOCRISIE DEL FILANTROCAPITALISMO
Quaranta tra i miliardari più ricchi degli Stati uniti d’America si sono recentemente impegnati a donare la maggior parte del loro patrimonio per scopi filantropici. Mossi dall’ambizione di ispirare altri ’paperoni’ in tutto il mondo e stimolare una vera e propria ondata di solidarietà, hanno costituito il cosiddetto Giving Pledge (L’impegno a donare), un’iniziativa filantropica che esemplifica la visione a lungo termine di questa nuova generazione di super-ricchi. Lanciato da Bill Gates e Warren Buffett, il gruppo del Giving Pledge include - tra gli altri – il fondatore di eBay Jeff Skoll, il sindaco di New York Michael Bloomberg, la famiglia Rockfeller, e il magnate dei media Ted Turner. La notizia, lanciata all’inizio di agosto, ha fatto il giro del mondo, suscitando un ampio dibattito anche in Europa, dove le iniziative filantropiche di questa portata sono senza precedenti. A tutti gli effetti, il Giving Pledge è il progetto filantropico più mastodontico mai realizzata nella storia, con un capitale complessivo che supera di gran lunga i volumi finanziari di uno stato di medie dimensioni. Inoltre, il Giving Pledge è stato lanciato nel mezzo della più grave crisi economica dai tempi della Grande Depressione e quindi si carica di un forte messaggio simbolico: il grande capitale può contribuire a rendere il mondo un posto migliore per tutti.
Ma è davvero così? Negli ultimi tre decenni, le risorse finanziarie globali si sono concentrate nelle mani di poche multinazionali, controllate da una manciata di super milionari. Le differenze di reddito tra i più ricchi e “tutti gli altri” sono più che triplicate e gli stipendi dei lavoratori sono diminuiti in termini di potere d’acquisto. I bilanci degli stati si sono ridotti, soprattutto a causa del crollo delle entrate fiscali, dei tagli alle tasse per i più ricchi e dell’evasione fiscale ormai praticata su scala industriale. Nel mondo di oggi sono poche le grandi aziende che non utilizzino qualche tipo di sussidiaria, holding o altra società controllata in modo da frazionare profitti e quindi ridurre la pressione fiscale. E sono pochissimi (ammesso che davvero ci siano) i miliardari che si rifiutano di possedere conti in banca offshore o nei tanti paradisi fiscali ai quattro angoli del pianeta. Sfruttando al massimo il potenziale cinico della globalizzazione, le multinazionali controllate dai paperoni del mondo non hanno esitato a spostare interi settori di produzione in paesi dove la manodopera costa meno (e lo sfruttamento è diffuso), provocando una perdita di migliaia di posti di lavoro nei propri paesi d’origine e ricattando i sindacati. Non c’è dubbio che molte di queste pratiche siano legittime e legali, ma sicuramente sollevano numerose domande sulle intenzioni filantropiche delle grandi imprese ed il loro impatto complessivo sulla giustizia sociale. In genere, il grande capitale opera secondo modalità che, direttamente o indirettamente, aggravano la povertà e moltiplicano le ingiustizie.
Se riconosciamo che il grande capitale è, per dirla modestamente, corresponsabile dello stato indegno in cui navigano le nostre economie ed ha contribuito a diminuire il benessere sociale su larga scala, allora come si può pensare che il Giving Pledge sia in grado di risolvere le ingiustizie che i suoi sostenitori hanno contribuito a creare? La filantropia è un sentimento nobile, ma nelle migliori condizioni riesce al massimo a lenire alcuni effetti dei problemi sociali. Spesso, invece, non fa altro che nascondere o addirittura rafforzare le ingiustizie strutturali del nostro sistema economico e finanziario: basta che restituisci qualcosa alla comunità - il credo filantropico sembra sottintendere – e puoi comodamente continuare a fare i tuoi interessi come se nulla fosse.
Il Giving Pledge richiede ai miliardari filantropi (o ’filantrocapitalisti’ come amano definirsi) di devolvere almeno il 50 per cento del loro patrimonio netto per cause benefiche, ma lascia a loro la libertà di decidere come erogare il denaro e per quali cause. In questo senso, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Infatti, molti di questi paperoni già hanno le proprie fondazioni personalizzate (che in genere prendono il loro nome, in un evidente esempio di narcisismo) ed ciononostante non si può certo dire che i risultati delle loro azioni filantropiche siano stati particolarmente significativi su scala globale.
Nel 2006, il filosofo Peter Singer ha scritto sul New York Times che i super-ricchi d’America avrebbero potuto e dovuto dare di più a cause caritatevoli invitandoli direttamente a contribuire agli Obiettivi del Millennio, l’iniziativa dell’ONU contro la povertà e le altre ingiustizie globali che però è indebolita da scarsi finanziamenti e poche risorse. Il Giving Pledge sembra offrire una mezza risposta alla richiesta di Singer, ma elude la questione del coordinamento e della coerenza dei finanziamenti che è alla base degli Obiettivi del Millennio. È quindi probabile che i filantrocapitalisti continueranno a perseguire le proprie strategie filantropiche in modo selettivo ed individualistico, senza cooperazione con gli interlocutori pubblici e non governativi, concentrandosi su temi specifici (in genere quelli che parlano al cuore del paperone di turno), evitando di affrontare questioni ’calde’ come la riforma della finanza mondiale, la regolamentazione delle imprese multinazionali e l’accesso alle risorse (sia materiali che immateriali), anche se queste sono le cause principali della povertà sistemica e degli squilibri globali.
Nella migliore delle ipotesi, il Giving Pledge fornirà nuove risorse finanziarie per le opere caritatevoli internazionali, per le solite organizzazioni non governative più famose, per qualche gruppo di pressione ed un manipolo di think tanks compiacenti. I filantrocapitalisti verranno intervistati dalle riviste più patinate, spiegheranno come le loro esperienze imprenditoriali di successo possono essere messe al servizio di cause sociali, alcune celebrità si aggiungeranno al coro ed al gossip, qualche cena di gala verrà celebrata in giro per il mondo e, forse, uno di questi filantrocapitalisti potrebbe addirittura ritrovarsi a vincere un premio ’scandinavo’. I paesi poveri verranno invasi da consulenti occidentali e orde di tecnocrati impartiranno corsi di formazione nei villaggi rurali per insegnare a questa povera gente come sconfiggere la povertà con qualche grafico, una lavagna mobile e modelli di business pensati da qualche accademico creativo. Allo stesso tempo, ai beneficiari finali di questo tsunami di solidarietà sarà concesso di dire poco o nulla sui progetti da finanziarie e le priorità da perseguire, mentre costose conferenze saranno organizzate in alberghi lussuosi e gli immancabili analisti prezzolati diranno che siamo entrati nell’era del capitalismo solidale. Dopo pochi anni tutto tornerà alla normalità, lasciando qualche economista a chiedersi come mai la povertà e le ingiustizie sociali non sono state sconfitte. Come Michael Edwards ha sostenuto nel suo ultimo libro ’Small Change: perché il business non salverà il mondo’, l’idea secondo cui la mentalità imprenditoriale può salvare il mondo è un vero e proprio ’mito’, che serve gli interessi di chi occupa posizioni di potere, e la costante celebrazione di individui ricchi e famosi è una distrazione pericolosa dal duro lavoro quotidiano degli operatori sociali, che cercano di sviluppare soluzioni a lungo termine.
Per tutte queste ragioni credo che se i filantrocapilisti volessero davvero esercitare un impatto positivo, dovrebbero concentrarsi su ciò che conoscono meglio (cioè, il business) invece di colonizzare un territorio a loro non familiare, come quello del lavoro sociale, con il rischio di imporre altre priorità e ordini del giorno. Come fare? Per esempio, cercando di rispondere alle seguenti domande: c’è un modo per ripensare il business in modo che contribuisca direttamente a rendere il mondo un posto migliore? Quali nuovi modelli imprenditoriali si potrebbero applicare allo scopo di promuovere la sostenibilità, i beni comuni e l’uguaglianza, piuttosto che concentrare la ricchezza in poche mani e impoverire i molti?
Immaginate cosa accadrebbe se Microsoft decidesse di abbandonare la propria condizione di monopolista per diventare uno sponsor globale del software libero. Forse ciò potrebbe causare una riduzione dei profitti per l’azienda, ma avrebbe un impatto enorme sull’accesso all’informazione, l’alfabetizzazione e lo sviluppo economico di tutto il mondo. Significherebbe anche che le piccole aziende non verranno più soffocate dal gigante di Seattle, promuovendo così nuovi posti di lavoro, innovazione e libertà, soprattutto nei paesi poveri che pagano milioni di dollari al giorno in licenze alla multinazionale fondata da Bill Gates. Pensate se Warren Buffet convertisse il suo impero finanziario, che è indubbiamente prosperato grazie alla deregolamentazione degli ultimi anni, in fondi di investimento etico a sostegno delle piccole cooperative, delle imprese locali, dei gruppi di microcredito e di altre forme di economia sociale. Migliaia di medi e piccoli investitori seguirebbero il suo esempio, riducendo la quantità di capitale che è a disposizione degli speculatori finanziari. Ciò potrebbe addirittura influenzare le banche e persino le borse, stimolando nuove modalità di investimento su larga scala per iniziative benefiche e sostenibili. Immaginate l’impero mediatico di Bloomberg trasformato in un vero e proprio ’controllore civico’ dei mercati finanziari, che utilizzi la propria rete globale di analisti ed esperti per promuovere una cultura del risparmio, della condivisione e della finanza etica. Cosa succederebbe se i Rockfeller ed i loro amici facessero pressione sui governi affinché aumentino le tasse per i ricchi (invece di ridurle), combattano l’evasione fiscale (anche i modi legali per eludere il sistema fiscale) e ricostruiscano le reti di sicurezza sociale? Non sarebbe questo il modo migliore per diventare dei veri e propri filantropi e fare del mondo un posto migliore ogni singolo giorno? Questi sono solo alcuni esempi di modi in cui si potrebbero utilizzare le risorse ed il peso politico dei fondatori del Giving Peldge per combattere le ingiustizie del nostro mondo. Irrealistico? Troppo ambizioso? Forse, ma basta leggere i proclami del Giving Pledge per capire che l’ambizione non manca a questi filantrocapitalisti. Puntano a cambiare il mondo, e allora perché non farlo davvero?
Siccome il grande capitale è una delle cause delle tante ingiustizie che i filantrocapitalisti vorrebbero risolvere, i paperoni progressisti dovrebbero prima di tutto concentrarsi su come riformare le proprie imprese e dare il buon esempio. A questo scopo potrebbero sottoscrivere un impegno comune a riformare il sistema finanziario ed economico da cui hanno tratto profitto allo scopo di promuovere un codice di condotta che divenga vincolante per tutti coloro che vogliono sviluppare attività imprenditoriali etiche. Questa sarebbe una svolta rivoluzionaria, che i filantrocapilisti potrebbero realizzare in un batter d’occhio, se davvero volessero. Una mossa inaspettata, in grado di esercitare un impatto a lungo termine sull’economia mondiale, ispirando migliaia di altri uomini d’affari in tutto il mondo. Un impegno più credibile ed efficace di quello trito e ritrito di “fare l’elemosina” attraverso campagne di beneficenza una volta che il danno è fatto.
Scrivendo a proposito della Grande Depressione, il premio Nobel John Steinbeck metteva in guardia contro quegli uomini d’affari “che trascorrono due terzi della loro vita scuoiando una fortuna dalle budella della società e l’ultimo terzo restituendo gli spicci”. Quindi la domanda è: possono i paperoni progressisti del mondo affrontare le ingiustizie sociali alla fonte piuttosto che limitarsi ad un esercizio di facciata con le loro iniziative filantropiche? Possono onestamente rispondere all’accusa di Steinbeck che “l’atto di donare porta con sé lo stesso senso di superiorità che togliere dà, e che la filantropia può ben essere un altro tipo di avarizia spirituale?”. A dire il vero, la vera filantropia non ha nulla a che fare con la carità. Il significato etimologico del termine è “amore per l’umanità”’. Quindi il modo migliore che un uomo d’affari ha per essere un vero filantropo è quello di promuovere attività economiche che contribuiscono direttamente al miglioramento della società, ogni giorno, anche se neanche un centesimo è speso in beneficenza.
*Lorenzo Fioramonti è Senior Visiting Fellow al Centre for Social Investment dell’Università di Heidelberg (Germania) ed insegna politica internazionale all’Università di Bologna. La versione orginale di questo articolo (in inglese) é stata pubblicata su openDemocracy.