MARCO PATUCCHI, la Repubblica 7/9/2010, 7 settembre 2010
QUANDO CHARLIE CHAPLIN VOLEVA SFIDARE DORANDO PIETRI
"Maratoneti, storie di corse e di corridori" di (Baldini Castoldi Dalai Editore) esce in questi giorni in libreria. Una galleria di personaggi, da Abebe Bikila a Stefano Baldini, da Alberto Salazar al matematico Alan Turing, dal desaparecido Miguel Sanchez a Haile Gebrselassie, raccontati nel loro doppio percorso agonistico e umano. Ne pubblichiamo uno stralcio.
marco patucchi
«Hei, ma quello è Charlot…». I bambini gridavano sgranando gli occhi. L´omino in costume da bagno aveva iniziato a correre lungo la spiaggia di Santa Monica. Su e giù da un molo all´altro, seguito da un gruppo di persone che erano lì con lui a prendere il sole. La gente, affacciata al pontile, trascurò per qualche minuto i pescatori e i gabbiani e si gustò quella imprevista scena podistica in riva al mare di California.
Sì, quello lì era Charlie Chaplin e, mentre dai lettini Doug Fairbanks e Samuel Goldwyn sorridevano divertiti, uno dopo l´altro gli atleti improvvisati - tutta gente di Hollywood - mollarono piegandosi sulle ginocchia per la fatica. Charlot proseguì invece la sua corsa regolare: dieci, quindici volte tra i due moli.
«Oggi le persone si meravigliano quando vengono a sapere che, con la mia corporatura esile, riesco a correre per lunghi tratti - raccontò Chaplin nel 1921 a Frank Vreeland del New York Herald - . Sa, ho i polmoni piuttosto sviluppati e poi le mie gambe si erano formate abbastanza bene a forza di ballare con gli "Eight Lancashire Lads" sul palcoscenico. Ero entrato nel gruppo podistico di Kennington, e per me correre una ventina di chilometri non era niente. Anzi, ho perfino preso in considerazione l´idea di iscrivermi alla maratona delle Olimpiadi di Londra, ma più o meno in quel periodo mi sono ammalato. Riesco ancora a correre per quindici chilometri senza problemi. La resistenza e la capacità polmonare non si perdono mai». Chaplin podista a Kennington Road, la via londinese che lo aveva visto bambino e poi ragazzo, prima dell´inizio dell´avventura americana. Un´infanzia segnata dalla povertà, dalla separazione dei genitori, dalla malattia della madre, dagli orfanotrofi e dalle prime esperienze teatrali.
A Kennington era nata anche l´andatura di Charlot: «Il mio vecchio zio gestiva un pub - ha raccontato Chaplin nel 1916 - e c´era uno di quegli ubriaconi inveterati che se ne stava appoggiato al muro per ore e ore di fila in attesa di un´occasione per elemosinare o guadagnarsi qualche spicciolo. Quando una vettura si fermava davanti alla porta lui si precipitava arrancando a tenere fermi i cavalli, e si affannava talmente con i suoi poveri piedi doloranti nelle scarpe vecchie e sfondate, che camminava più meno nel modo in cui cammino io nei miei film».
La camminata di Charlot, i calzoni abbondanti, le scarpe enormi, il bastoncino flessibile, la bombetta sollevata ogni volta davanti ai poliziotti: «Quando studio qualche gag che mi piace in modo particolare, e poi vado al cinema per vedere l´effetto che fa, quello che ride per primo è invariabilmente un bambino. Afferrano al volo, sempre». E solo i bambini resteranno fedeli fino in fondo all´omino con i baffi e la bombetta. Dopo le mille comiche, "Il monello", "Luci della città", "Tempi moderni", "Il grande dittatore"… gli adulti americani decideranno che Charlie Chaplin non era persona gradita negli Stati Uniti perché sospettato di filocomunismo.
«Sono stato così fin da bambino - replicò Chaplin al fuoco di fila dei giornalisti nella drammatica conferenza stampa del 12 aprile 1947 a New York, per l´uscita di "Monsieur Verdoux" - . Non posso farci niente. Ho viaggiato in tutto il mondo, e il mio patriottismo non si basa su una sola classe. Si basa sul mondo intero…sulla pietà per il mondo intero e per la gente comune». E ancora: «I miei film sono sempre storie raccontate dalla parte dei perdenti, e con grande pietà e comprensione. Credo che la pietà sia una dote grandiosa. Senza di essa non avremmo la civiltà».
Il podista Chaplin non partecipò, per un soffio, alle Olimpiadi di Londrà del 1908, quelle di un altro omino con i baffi che commosse tutti. Ma la maratona di Dorando Pietri sarebbe piaciuta anche a lui: la corsa del perdente più famoso del mondo. «Come dicono gli inglesi, io sono colui che ha vinto e ha perso la vittoria».