MATTIA FELTRI, La Stampa 7/9/2010, pagina 4, 7 settembre 2010
Pdl, il partito col peccato originale - I l Popolo della libertà morì nei giorni del battesimo. Uno che la vide lunga fu il politologo Giovanni Sartori: «Io credo che il successore di Berlusconi, Berlusconi vivente, lo decide Berlusconi, e quindi non sarà certo Fini»
Pdl, il partito col peccato originale - I l Popolo della libertà morì nei giorni del battesimo. Uno che la vide lunga fu il politologo Giovanni Sartori: «Io credo che il successore di Berlusconi, Berlusconi vivente, lo decide Berlusconi, e quindi non sarà certo Fini». E aggiunse: «I colonnelli sono già tutti sistemati». Avevano già cambiato generale. Era venerdì 27 marzo 2009, apertura del week end del congresso di fondazione del partito unitario di destra. Alla domenica sera, la sintesi del segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, fu micidiale: «A Berlusconi faccio tanti auguri, a Fini ne faccio tantissimi». Sabato 28, dopo il discorso del presidente della Camera, il premier aveva devoluto ai retroscenisti materiale di grande abbondanza e di grande sapore; voci dal backstage avevano spifferato il seguente commento offerto dal cofondatore uno al cofondatore due: «Hai fatto un discorso stre-pi-to-so, stre-pi-to-so. Il miglior discorso che io abbia mai sentito. Sono d’accordo su tutti i punti». E poiché Berlusconi è di notoria generosità, si produsse in un elogio di Elisabetta Tulliani: «Ti devo fare i complimenti per la tua donna che è un modello di stile e di compostezza». Ma che cosa aveva detto Fini? Essenzialmente tre cose. Primo, la Lega va sfidata (allora si parlava del referendum elettorale) «perché discutere è il peso della democrazia»; secondo, le riforme costituzionali si fanno insieme con il Partito democratico; terzo, va sconfessata la legge sul testamento biologico perché è da «stato etico». I due avevano come al solito appena finito di litigare. Si erano visti in settimana, un pranzo col fiore in bocca, per la battuta di Berlusconi secondo il quale bisognava consegnare diritto di voto (in aula) soltanto ai capigruppo così si sarebbe risparmiato tempo. Fini difese l’istituzione rappresentata, e coi toni che ama. Berlusconi spiegò di essere stato frainteso, naturalmente. Un precedente fra mille. Il più celebre era quello delle «comiche finali», denunciate da Fini poco più di un mese dopo la “rivoluzione del predellino”, piazza San Babila, novembre 2007. Una volta ceduto, Fini avrebbe detto che il nuovo partito sarebbe stato «un partito ampio, plurale, inclusivo ed unitario, non di una persona, ma di una nazione» (a Panorama, una settimana prima del congresso fondativo). In un’intervista alla Stampa, poi, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno (l’ultimo dei colonnelli ad abbandonare Fini, e nonostante in quel momento fosse già considerato un berlusconiano per la presa di posizione nel caso Englaro), disse che uno dei compiti del Popolo della libertà sarebbe stato quello di «costituzionalizzare Berlusconi», e cioè di sottoporlo alle regole, consegnargli la leadership attraverso il voto anziché attraverso il plebiscito, farlo uscire dalla «legittimazione carismatica» per farlo entrare in quella di un «partito strutturato». Roba che a Berlusconi sarebbero venute le bolle. E infatti, al termine del Congresso, fu incoronato per inerzia e per acclamazione da seimila delegati e il Pdl vide la luce col peccato originale. Domenica 29 marzo, Berlusconi chiuse il trittico e si esibì in una estrosa predica, pura e rilucente bigiotteria, e a Fini dedicò le carezze che si dedicano ai faciulli, ma soprattutto sventolò il programma del Partito popolare europeo dicendo «questi sono i valori del berlusconismo». Non del partito, del «berlusconismo». Su due dei tre punti (Lega, bioetica, riforme) sollevati da Fini non rispose, sul terzo disse: «Se Fini ci riesce, tanto di guadagnato... Ma non credo. Per intanto andremo avanti da soli». A chi gli chiese conto di una tale sgarberia, Berlusconi rispose: «Io non ho un linguaggio da uomo del palazzo. Non uso il politichese. Me ne guardo bene. Né tantomeno finisco nelle polemiche politiche il più delle volte incomprensibili. Mi tengo fuori dal teatrino della politica. Sono un uomo del fare, io. Da sempre». Insomma, nel giro di tre giorni si era tracciato il canovaccio della commedia recitata nel successivo anno e mezzo. Fini chiedeva regole, dibattito, politica soda, quell’altro gli offriva trance mediatica, monologo fascinoso, politica spiccia del «ghe pensi mi». E si notò, quella domenica pomeriggio, l’assenza del presidente della Camera. Non era in prima fila a celebrare l’incoronazione. Si parlò di precedente impegno istituzionale, ma era il segno di un’illusione già abortita.