Antonio Scurati, La Stampa 7/9/2010, pagina 1, 7 settembre 2010
Outlet, un’utopia lunga dieci anni - Il XX secolo è stato il cimitero delle utopie realizzate. Quasi tutte le grandi idealità sociali vi sono state messe in pratica con cent’anni di ritardo, quasi sempre in maniera disastrosa
Outlet, un’utopia lunga dieci anni - Il XX secolo è stato il cimitero delle utopie realizzate. Quasi tutte le grandi idealità sociali vi sono state messe in pratica con cent’anni di ritardo, quasi sempre in maniera disastrosa. L’outlet, nel suo piccolo, ha già realizzato, in tempi record, in un decennio, l’utopia sociale del nascente XXI secolo. L’ha fatto esaudendo il desiderio di un internamento dolce e volontario in un paradiso artificiale dello shopping. Il linguaggio più adeguato a descrivere questo microcosmo incantato è quello della comunicazione pubblicitaria. Piccolo borgo lontano dal traffico, costruito secondo lo stile tipicamente ligure, immerso nelle verdeggianti colline del Gavi, che ti accoglie con più di 170 negozi delle grandi marche di abbigliamento, sport e accessori. Uno spazio unico nel suo genere, 35 mila metri quadrati di superficie calpestabile dove le boutique delle firme più prestigiose ti accolgono con offerte sensazionali. Il tutto in un contesto rilassante e piacevole, che offre un vasto parcheggio, bar, ristoranti e una grande area gioco per bambini. Una pausa di piacere nella città delle grandi firme». E così è. Non c’è lingua più adatta a descrivere questo eden posticcio della società degli iperconsumi di quella del marketing avanzato perché, di fatto, l’outlet è il piccolo mondo ultramoderno nato per partenogenesi dalla fantasia di un geniale idiota del marketing. Una bolla di immanenza mercantile che, al tempo stesso, ti libera e ti imprigiona. In questo come in molti altri casi di postmoderni dispositivi per la produzione artificiale dell’esperienza, l’esperienza è, infatti, un’esperienza d’immersione. Se all’inizio della fantasmagoria del moderno, l’acquirente aveva ancora bisogno della vetrina come soglia di mediazione fra sé e lo spettacolo delle merci, ora invece, in luoghi come i designer outlet, si vuole e si può entrare dentro lo spazio delle proprie visioni consumistiche. L’esperienza è quella di una gradevole passeggiata in ampi viali circolari, fiancheggiati da finte abitazioni in cui nessuno abita, che conducono a due ariose piazze ingentilite dallo zampillio di giochi d’acqua che nessuno guarda; una camminata protetta da un sistema di sorveglianza discreto, igienizzata da efficientissime squadre di pulitori in servizio permanente, inframmezzata da riposanti soste su panchine posizionate in punti strategici, costellata da liberi ingressi in boutique dove si viene squisitamente accolti con un protocollo da nursery. Un mondo lindo, protetto, accogliente, perfettamente fruibile e pienamente fungibile, da cui il conflitto sociale è stato definitivamente estirpato, un mondo dove non è possibile smarrirsi, dove trovi sempre parcheggio, dove la gente è gentile, dove i bambini possono scorazzare liberamente. Insomma, tutto quello che il nostro mondo non è più, o non è mai stato. Un mondo dove l’unica cosa che ti rimane da fare è comprare. E fate attenzione: non si cela nessuna fregatura dietro questa cosa di cartapesta. Semmai, se la cartapesta non ci piace, la fregatura è la cosa stessa. Non ha senso criticare l’outlet per la sua presunta natura illusoria (o ingannevole). Il suo problema, semmai - come ho già avuto modo di scrivere su questo stesso giornale - è che mantiene tutte le proprie promesse. La sua piccola utopia la realizza davvero. Forse, però, è davvero troppo piccina. E, allora, si facciano avanti coloro i quali non ritengono che lo shopping possa essere la massima aspirazione della vita. Si facciano avanti una buona volta perché tutti gli altri sono già in coda all’uscita di Serravalle Scrivia per i saldi dell’outlet.