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 2010  settembre 05 Domenica calendario

L’ITALIANO, UNA LINGUA POVERA?

[Intervista a Nicoletta Maraschio]

I due volti dell’italiano. Quello «fragile», legato a una «coscienza linguistica debole», al «livellamento verso un uso informale», a un «andamento stereotipato, in parte condizionato dai mezzi di comunicazione di massa che rischiano di togliere il gusto dell’invenzione e della libertà linguistica». E quello «vitale» che fa del nostro idioma «la quarta o la quinta lingua più studiata nel mondo» in cui «la capacità di rinnovamento» si innesta in un albero secolare le cui radici affondano nel fiorentino del Trecento. È la fotografia in chiaroscuro sulla nostra lingua scattata da Nicoletta Maraschio, ordinaria di storia della lingua italiana all’Università di Firenze e presidente dell’Accademia della Crusca, la più antica istituzione linguistica d’Europa che «ha insegnato al mondo a comporre un vocabolario nazionale sul modello di quello realizzato dall’Accademia nel 1612». Professoressa, anche l’italiano è stato travolto dalla «tempesta delle lingue» di cui parla il suo predecessore alla guida della Crusca, Francesco Sabatini?

«Sì, l’italiano ci è entrato con una maggiore fragilità rispetto ad altre lingue europee. E le ragioni sono molteplici: il processo di unificazione linguistica nazionale recente, la frammentazione sociale e culturale ancora forte, la poca consapevolezza che si ha dell’importanza della lingua».

Però ancora l’80% del lessico coincide con quello di Dante, Petrarca e Boccaccio.

«E questa continuità storica differenzia l’italiano dalle altre lingue europee. Però, quando si allude all’80% dei vocaboli, occorre riferirsi al lessico di base, cioè a parole fondamentali come amore, casa, vita, morte o pane. Per quanto attiene al lessico specialistico, circa la metà è novecentesco. Ciò dimostra come nell’ultimo secolo l’italiano abbia saputo rinnovarsi attraverso nuove parole create qui o con prestiti soprattutto dal francese e dall’angloamericano».

E i giovani di oggi? Sono taumaturghi della lingua o semplicemente importatori dall’estero?

«Nel settore informatico o dei nuovi media dove i giovani sono protagonisti, i vocaboli stranieri sono molto diffusi. Ma da uno studio dell’Accademia su blog e gruppi di discussione, è emerso che spesso l’uso di anglismi o di dialettismi è scherzoso: un segno di confidenza e di riconoscibilità reciproca. Che i giovani contribuiscano a togliere una patina di seriosità all’italiano, può essere apprezzabile. Il vero punto è che in altri casi la lingua deve essere seria. Ma un uso ’serio e semplice’ dell’italiano non è purtroppo ancora molto diffuso né tra i giovani né tra gli adulti».

Mediamente parlando, radio e tv stanno appiattendo l’italiano?

«Fino agli anni Settanta i due mezzi hanno avuto una funzione didattico-pedagogica diffondendo la lingua nazionale. Successivamente il loro ruolo si è modificato: oggi rispecchiano e amplificano il panorama multilingue che ci circonda, ma anche trasmettono e consolidano stereotipi. Una specie di lingua di plastica, fatta di mattoncini usati e riusati in ogni circostanza. Tutto ciò toglie libertà perché spinge all’uso di modelli preconfezionati».

Perché la sintassi fa fatica?

«L’italiano ha una storia legata soprattutto alla scrittura. Questo ha consentito che si conservasse identico a se stesso fino al Settecento. Poi, nel contatto con il francese, ha cominciato a cambiare anche dal punto di vista sintattico. Il periodare di Boccaccio, ricco di subordinate e col verbo in fondo, è decaduto. E negli ultimi due secoli, quando la lingua è diventata di tutti, si è intensificato il rapporto con l’oralità. Nel concreto si è assistito a una semplificazione di alcuni sistemi grammaticali complessi come quello del verbo e dei pronomi».

Le subordinate stanno andando in pensione?

«Non sempre. Ma è vero che in genere si preferiscono le frasi coordinate o giustapposte. O i costrutti nominali. Oggi comunque assistiamo a un’eccessiva informalità sia nel parlato sia nello scritto. Una lingua contempla generi e stili diversi. Utilizzare unicamente un registro basso significa impoverire la lingua o non sfruttarne tutte le potenzialità».

Anche la punteggiatura sembra finita ai margini.

«Dal momento che la punteggiatura è un sistema convenzionale che non rispecchia solo le pause dell’oralità ma ha regole proprie della scrittura, va insegnata soprattutto a scuola. Di recente il punto fermo tende a sostituire la virgola o il punto-e-virgola, anche quando la struttura logica del periodo non è completata. Se questo si riscontra in un grande scrittore, è una scelta stilistica. Ma nella maggior parte dei casi la scelta è fatta senza cognizione di causa».

Eppure all’estero l’italiano ha una sua fortuna...

«La nostra lingua non si è imposta con le armi, ma grazie alla cultura e a un’immagine positiva dell’Italia che ancora circola nel mondo. Certo occorrerebbe investire di più, creando corsi di italiano per stranieri o nuove cattedre universitarie di linguistica all’estero. Puntare su questo settore può avere ricadute non solo di tipo culturale ma anche economico».

Persino la Crusca fa i conti con la mancanza di fondi.

«In un appello lanciato a luglio dagli accademici si chiede a chi ci governa che la nostra istituzione possa continuare a svolgere il ruolo di tutela e valorizzazione della lingua nel Paese e nel mondo. Anche questa è una strada per vincere le fragilità dell’italiano».