Varie, 6 settembre 2010
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Quinto Felice
• Milano 11 aprile 1929, Washington (Stati Uniti) 16 gennaio 2010. Paparazzo «[…] il fotografo della Dolce Vita di Via Veneto che negli anni 60 ispirò il personaggio di Federico Fellini […] si era trasferito negli Stati Uniti tre anni dopo la realizzazione della Dolce Vita (1960) in seguito al matrimonio con un’americana. Fotogiornalista per l’Associated Press, il suo primo servizio fu il funerale di Kennedy. Negli anni ’70 […] era tornato a immortalare le celebrità: prima come “fotografo di corte” della discoteca Studio 54 di Manhattan, poi come fotografo personale di Liz Taylor. Quinto era andato in pensione nel 1993: si era ritirato a Rockville in Virginia, scegliendo una vita tranquilla, tra piante di basilico e peperoncini in giardino e cucina italiana. Pochi dei suoi vicini sapevano del suo passato da “paparazzo”» (“Corriere della Sera” 9/2/2010) • «Quegli anni erano favolosi, disse. Ma si dice sempre così. Lui girava su una Moto Guzzi modello lusso, tutta rossa fiammeggiante, con la sua Rolleiflex a tracolla, per rubare foto alle star del cinema. Erano un branco di giovani sfacciati, invadenti e bellocci, che bivaccavano fuori dal Café de Paris, in Via Veneto, seduti su una Vespa o su una moto con le loro macchine fotografiche a portata di tiro. Fu lì che li vide Federico Fellini quando inventò la Dolce vita e la figura di Paparazzo, il fotografo interpretato da Walter Santesso che lavorava al fianco di Marcello Mastroianni, patetico giornalista a caccia di gossip per le vie di Roma, nella Hollywood sul Tevere. E fu lì che un giorno, seduto nel dehors, gli spiegò che “la definizione di paparazzo è semplicemente questa: uno che vuole rompere le palle”. I miti hanno sempre una verità banale dentro di sé. Felice Quinto aveva poco più di vent’anni e nessuno gli aveva mai insegnato niente. Probabilmente, lui e Tazio Secchiaroli, morto nel ’98, ispirarono il personaggio del paparazzo: due ragazzi che vedevano cambiare il mondo divertendosi. Fellini, raccontò Quinto tanti anni dopo, gli chiese pure se voleva recitare in quel ruolo: gli offriva 10 mila lire al giorno. Ma lui rifiutò. Perché, disse, guadagnava molto di più scattando foto alle star del cinema. E gli piaceva […] i giornali americani hanno ricordato quello che lui rispose quando gli consegnarono un premio per una foto scattata su alcuni poliziotti che stavano ammazzando di botte un nero: “Non vengo da nessuna scuola. Ho imparato tutto quello che so perché avevo bisogno di mangiare. E perché amavo quello che facevo”. Così semplice da sembrare banale. Tanto americano. Perché, dopo la Dolce vita, Felice era emigrato in America. Aveva conosciuto una insegnante di liceo del Maryland, durante un vernissage al festival di Venezia, e se ne era innamorato. Lavorò per la Associated Press, fece grandi servizi sulle morti di Kennedy e Martin Luther King, vinse un mucchio di premi, e poi tornò al cinema e alla bella vita, diventando il fotografo di Liz Taylor e quello che consacrò un locale ormai moribondo, lo Studio 54 di Manhattan, immortalato, dopo di lui, da Vanity Fair, come “il club più grande di tutti i tempi”. Nel ’78 era tornato a Roma per i funerali di Paolo VI e la sua foto di quelli che prendevano le misure per la bara del Papa provocò molte polemiche. Felice Quinto, pronunciato Feh-leech-ay Kween-tep, come scrivevano i giornali americani, “il paparazzo dei due mondi”, era più famoso negli States che da noi, forse perché loro vogliono conservare la memoria della società in cui vivono, e anche quando si era ormai ritirato in pensione dalle parti di Montgomery Village c’era sempre qualcuno che andava ancora a cercarlo per farsi raccontare della sua vita. L’ultima volta che il cronista del Washington Post riuscì a scovarlo, nel suo buen retiro di Kardwright Court, in Maryland, tra le piante di basilico e di peperoncino coltivate in giardino, Felice gli aveva indicato le villette intorno, con gli steccati di legno bianco, parlando nella sua voce strascicata da telefilm dei Soprano: “Ogni stagione ha il suo tempo. Come faccio a star lì due ore a raccontare a questa gente di Fellini? Uno parla solo della sua pensione, e un altro, se gli dài una birra, è contento così” […] aveva abbandonato presto la scuola. Faceva il meccanico. Ma dopo la guerra era rimasto ipnotizzato dalle riviste patinate e dalle loro copertine, perché gli sembravano un simbolo della rinascita, come il rock and roll e il boogie woogie. Nel ’56 andò a Roma, con la sua Rolleiflex a tracolla, presa in pegno dal negozio del babbo. In Via Veneto cominciò a lavorare assieme a Secchiaroli, Sergio Spinelli, Velio Cioni, Elio Storci e il giovanissimo Rino Barillari. Paris Match e l’agenzia Magnum Photos stavano segnando un’epoca: volevano foto che raccontassero storie e pettegolezzi piccanti. Lui e i suoi colleghi venivano informati da camerieri, baristi, fattorini, su qualunque bacio famoso lasciato sotto alla luna. Per Felice, poi, la realtà e la finzione si mischiarono all’alba del 20 ottobre 1960, quando inseguendo Anita Ekberg, sorpresa a baciare un produttore sposato, la vide emergere a piedi nudi e con un abito nero da cocktail simile a quello che indossava uscendo dalla fontana di Trevi nella Dolce vita: lei gli si avvicinò e gli dette una ginocchiata nelle parti basse. Solo che quel colpo fu immortalato da altri fotografi. E anche quando tanti anni dopo, in America, lui riusciva a prendere con la sua immancabile Rolleiflex dei poliziotti che massacravano un uomo di colore, alla fine andavano per chiedergli sempre di quella sera, quando la vita era diventata solo come un film, così finta e così bella, con una voce da Soprano per raccontarla» (Pierangelo Sapegno, “La Stampa” 23/2/2010).